Sentenza Mori-Obinu, gravi errori dei giudici e aspetti oscuri

di Giorgio Bongiovanni

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Vergogna è quella che dovrebbero provare Mario Fontana (foto), presidente della IV sezione del Tribunale ed i giudici a latere Wilma Mazzara e Annalisa Tesoriere. Vergogna per aver messo in atto una vera e propria vigliaccata nei confronti della verità che si sta cercando di portare alla luce in ben due processi come il Borsellino quater, in corso a Caltanissetta, e il processo sulla trattativa Stato-mafia che si celebra a Palermo. Leggendo le motivazioni della sentenza dell’assoluzione del generale Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu, imputati di favoreggiamento mafioso per non aver catturato nel 1995 Bernardo Provenzano nascosto in una masseria di Mezzojuso, emerge forte un grande senso di ignoranza della materia e di incompetenza da parte dei giudici. Il procuratore aggiunto di Palermo Teresi ha dato come voto “quattro meno” ma a nostro giudizio il voto sarebbe anche più basso. Su poco più di 1300 pagine i giudici ne hanno dedicate 845 per argomenti che esulano dal reato contestato ai loro imputati, che riguardava la mancata cattura di Provenzano. Hanno preferito ignorare le prove e dedicare il loro tempo a scrivere argomentazioni su possibili moventi del delitto.
Non vi è alcun libero convincimento del giudice in questa sentenza scritta in maniera pessima e faziosa in cui si arriva a tentare di condizionare, in buona fede forse, entrambi i processi in corso a Palermo e Caltanissetta. E lo si fa dimostrando ignoranza e incompetenza nel seguire i frutti dell’indagine, ascoltare i testimoni e valutare le prove inserite nel dibattimento.
E’ come essere tornati al “medioevo della storia della mafia”, a quegli anni ’60 quando i mafiosi, criminali e assassini, venivano assolti per insufficienza di prove (oggi si dice “il fatto non sussiste”, cpp 530).  Erano gli anni in cui i giudici facevano finta di non vedere seppur c’erano i primi collaboratori di giustizia (che facevano da confidenti alla autorità giudiziaria) e una miriade di prove oggettive che potevano incastrare i boss. Oggi i mafiosi assassini quasi sempre sono condannati, anche se parlano due pentiti e si trovano pochi riscontri probatori.
Diverso il discorso quando si sale di livello.
I collaboratori di giustizia possono essere anche quaranta o cinquanta ed i riscontri evidenti ma, quando i fatti coinvolgono politici ed istituzioni in genere, in questo caso funzionari dello Stato, le prove non bastano o vengono giudicate insufficienti.

Vogliamo credere nella semplice approssimazione ed ignoranza da parte del presidente Mario Fontana e dei giudici Wilma Mazzara e Annalisa Tesoriere. Non vogliamo pensare che nel giudicare, e quindi motivare per scritto, siano stati condizionati da chissà quali pressioni di poteri oscuri.
Sappiamo che le nostre dichiarazioni possono essere oggetto di querela. Ben venga, mi viene da dire. Perché così riporteremo a processo le stesse prove documentali e chiederemo le stesse testimonianze che ha portato la Procura nel procedimento Mori. E di questo parleremo nell’eventuale processo di diffamazione nei nostri riguardi.
Vedremo così se un altro giudice terzo leggerà bene le carte sulla mancata cattura di Provenzano e avrà il coraggio di “condannare” le gravissime affermazioni scritte in queste motivazioni della sentenza.
Viene scritto che il nesso trattativa-strage di via D’Amelio “è frutto di mera ipotesi che potrebbe essere plausibile, ma non trova supporto probatorio in nessun sicuro elemento”. E poi ancora si nega che vi sia stata un’“accelerazione” che portò Cosa Nostra a uccidere Borsellino 57 giorni dopo Falcone.
E basta poco per dire che certe considerazioni “gratuite”, come i giudizi su alcuni testimoni, sono frutto di incompetenza. L’accelerazione è un fatto accertato nella sentenza definitiva del Borsellino-ter, mentre sul nesso “trattativa-morte Borsellino” si cerca di far chiarezza in altri processi.
Ha fatto bene la Procura di Caltanissetta e rispondere nel merito e tecnicamente, ricordando per via d’Amelio “è competente solo la magistratura di Caltanissetta”, anche perché “il Tribunale di Palermo ha potuto esaminare solo indirettamente (e probabilmente con un diverso compendio probatorio) questa vicenda di competenza nissena, e solo al fine di rispondere al vero tema del processo: la mancata cattura di Provenzano”.
Un’affermazione che da ragione al nostro veemente grido di giustizia. Così i giudici della sentenza Mori si dimostrano anche arroganti, permettendosi di mettere in discussione aspetti estranei al proprio compito. Un’arroganza forse alimentata dalla certezza che qualcuno più in alto, grazie a questa sentenza, potrà regalare qualche “poltrona dorata” della magistratura. E’ lo stesso “schema” che si è ripetuto in passato, con quella magistratura (fatta eccezione per alcuni  giovani e oggi adulti magistrati ai quali Falcone e Borsellino avevano affidato la loro eredità scomoda ndr) che faceva aspettare nell’anticamera Falcone e Borsellino e che si è poi sporcata di sangue nel non cercare la verità sulle stragi, e su quanto avvenuto dopo, solo per un motivo: per non nuocere se stessa.
Così tutto torna ad essere semplificato, messo sotto al tappeto, o giustificato. Perché i giudici scrivono che evitare di catturare Provenzano dopo aver evitato di perquisire il covo di Riina fu una “scelta operativa discutibile”, in cui “non mancano aspetti opachi”. Ma passano comunque il colpo di spugna perché la “condotta attendista” di Mori e Obinu, che, se pur sufficiente a configurare “in termini oggettivi” il favoreggiamento a Cosa Nostra, non prova che “le scelte operative in questione, giuste o errate, siano state dettate dalla deliberata volontà degli imputati di salvaguardare la latitanza di Bernardo Provenzano o di ostacolarne la cattura”. E’ la nuova sentenza degli “Azzeccagarbugli”. Stavolta però non staremo a guardare inermi.
Stavolta  gridiamo denunciando la verità. Affermare che Borsellino non è morto a causa della trattativa mafia-Stato è anche una mancanza di rispetto per quell’istituzione che tanto osannano i vari Fontana e le signore Mazzara e Tesoriere che è la Cassazione. La magistratura è riuscita a ricollegare definitivamente l’attentato a Borsellino come conseguenza del “dialogo” aperto dai carabinieri del Ros Giuseppe De Donno e Mario Mori con i vertici di Cosa Nostra attraverso Vito Ciancimino. La sentenza denominata “Borsellino bis” ha scritto nero su bianco che questa trattativa, come abbiamo già accennato, fu uno dei principali fattori esterni a Cosa Nostra che andarono ad interferire con i processi decisionali della strage. Il pentito Giovanni Brusca ha raccontato che l’eliminazione di Borsellino subì una brusca accelerazione sui tempi pianificati da Cosa Nostra perché rappresentava, in quel momento, un ostacolo alla trattativa tra alcuni pezzi delle istituzioni e l’associazione mafiosa. Borsellino diviene improvvisamente “bersaglio principale” perché viene a conoscenza di qualcosa che non avrebbe dovuto sapere (“la strage del dottor Borsellino – ha detto Brusca – è per me per due motivi: una è per accelerare, due, che il dottor Borsellino poteva essere l’ostacolo, quello che poteva non garantire quelle trattative che erano state richieste e, quindi, un elemento di ostacolo… un elemento di ostacolo da togliere di mezzo a tutti i costi, visto che non era abbordabile con la corruzione o con qualche altro sistema”).
Per la strage la magistratura è arrivata ad una sentenza definitiva il 13 Febbraio 1999 condannando gli esecutori materiali ed i mandanti legati a Cosa Nostra tra cui Totò Riina, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Pippo Calò, Antonino Nené Geraci, Pietro Aglieri, Nitto Santapaola e i fratelli Graviano, confermati anche nella già citata Borsellino Bis e nella Borsellino Ter in Cassazione, ma lasciando aperte ombre pesanti sulle entità esterne all’associazione mafiosa “in qualche modo interessati a condizionare i moventi e i ragionamenti dei malavitosi eo in certe circostanze a svolgere una vera e propria opera di induzione al delitto” (sentenza d’appello Borsellino bis, cap. V).”
Anche nella sentenza definitiva di Firenze sulle stragi del ’93, viene messa nero su bianco che in merito all’esistenza della trattativa “non possono esservi dubbi di sorta”.
Più di recente nella sentenza di primo grado del processo a Francesco Tagliavia per le bombe del ’92 e ’93 la trattativa è stata dichiarata reale e non presunta. Non solo. Secondo tale sentenza l’iniziativa “fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia”. Ciò significa che la trattativa è certa, è avvenuta e non l’ha voluta la mafia ma lo Stato con negoziati che hanno fatto da sfondo alle stragi ma anche condizionando la politica degli ultimi vent’anni.
Per questo motivo è lecito ritenere che questo dispositivo di sentenza di assoluzione agli ufficiali Mori e De Donno sia una ulteriore conferma che il patto Stato-mafia non solo c’è stato, ma è ancora presente ed operante.

Fonte:Antimafiaduemila