La pianta marcia del Quirinale

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di Saverio Lodato – 18 ottobre 2013
Molti osservatori di cose di mafia hanno definito “sorprendente” la decisione della corte d’assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, di ammettere la testimonianza del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, limitatamente allo scambio epistolare con il consigliere del Quirinale, Loris D’Ambrosio (processo Trattativa Stato-Mafia). Il guardasigilli Anna Maria Cancellieri, pur ammettendo di non conoscere il testo dell’ ordinanza, si è detta “stupita” da una scelta che considera “inusuale”. Quanto al Quirinale, come si legge in un comunicato uscito a tamburo battente – come si dice – , “valuteremo l’ordinanza nel massimo rispetto istituzionale”. Cerchiamo di mettere ordine.
Ci si sorprende di fronte a cosa che provoca meraviglia, sorpresa, stupore. “Sorprendere”, propriamente: “prendere dal di sopra” (spiega lo Zingarelli). Allora, la domanda è: come mai molti osservatori si aspettavano che la richiesta dell’accusa di ascoltare Napolitano venisse respinta? In base a quale criterio?
Forse a molti sfugge (ma ci sono anche quelli che fanno finta di non capire) che a Palermo si sta celebrando un processo per stabilire se lo Stato trattò con la mafia prima durante e dopo le stragi del 1992 (Capaci e via D’Amelio) – 1993 (Roma, Firenze e Milano). Che ci sono dodici imputati, fra mafiosi, uomini politici e rappresentanti delle istituzioni. Che i giudici stanno facendo il loro dovere, proprio perché in ciò consiste il loro lavoro: accertare come andarono i fatti. E’ chiaro che se si ignora questo abc si viene presi “dal di sopra”.

Ma per quanti hanno conoscenza superficiale della materia, resta la domanda: perché sentire Napolitano? Rinfreschiamo le memorie. Perché Napolitano commise l’errore imperdonabile di dare ascolto a un imputato, tal Nicola Mancino, il quale, forte di un suo robusto passato istituzionale (senatore, Ministro degli interni, vice presidente del CSM), ma ormai diventato cittadino comune, pensò bene di darsi da fare per alleggerire la sua posizione processuale. Da qui le sue ripetute telefonate con Loris D’Ambrosio, consigliere del Quirinale. Da qui le sue telefonate con lo stesso Napolitano. Le prime furono pubblicate dai giornali (Mancino infatti non sapeva di essere sotto inchiesta). E chi non vuole farsi “sorprendere” è bene che oggi se le rilegga. Le seconde furono distrutte su ordine dell’Alta Corte su richiesta (conflitto con la Procura di Palermo) dello stesso capo dello Stato. Verrebbe da dire che in questo processo sulla trattativa fra Stato e mafia, il Quirinale ci si è infilato da solo: mani e piedi, come si dice. Ma se fosse solo questo, se fossimo cioè in presenza di una leggerezza “formale” – l’avere dato udienza telefonica, da parte del Quirinale, a colui al quale andava inconfutabilmente negata – anche noi, diciamo la verità, dalla decisione di scomodare un presidente della repubblica, saremmo stati “presi dal di sopra”. Ma non è così.
E’ lo stesso D’Ambrosio, infatti, in una sua lettera a Napolitano a scrivere testualmente di avere : “il timore di essere stato usato come ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi fra il 1989 e il 1993” (in data 18 giugno 2012). “Indicibili accordi”; e non è forse di questo che si sta occupando la corte d’assise di Palermo? E’ permesso ai giudici chiedere a Napolitano se quella lettera fu accompagnata da sfoghi personali dello stesso D’Ambrosio? E’ lecito supporre che lo stesso Napolitano, leggendo di “indicibili accordi”, abbia chiesto lumi, chiarimenti, insomma un supplemento di verità, al suo fedele consigliere? Non sarebbe molto strano il contrario? O sono argomenti che dovrebbero restare custoditi, vita natural durante, nelle Segrete Stanze? Suvvia, a tutto c’è un limite. Neanche Zeus, nel suo ovattato Olimpo, pretendeva simili prove di fedeltà e segretezza…
Quanto all’aggettivo “inusuale”, adoperato dal ministro Cancellieri, non sarebbe stato più azzeccato l’aggettivo “inedito”? Dire infatti che non si usa (inusuale) chiamare a testimonianza un capo dello Stato ci sembra una maniera un po’ birichina (non ce ne voglia la Cancellieri) per lamentare una mancanza di “bon ton” istituzionale da parte di chi, invece, quella convocazione dispone (mentre non l’avrebbe dovuta disporre): cioè la corte d’assise di Palermo. Insomma, siccome non si è mai visto un capo dello Stato chiamato in processo a deporre ( e su argomenti che non sono una piuma) mentre è in carica, la circostanza, più che “inusuale” ci appare “inedita”.
Poi, se la vogliamo dire tutta, per noi è “sorprendente” e “inusuale” che lo Stato italiano abbia trattato con la mafia mentre la mafia faceva a pezzi Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, dieci fra uomini e donne delle scorte, cittadini inermi a Roma, Firenze e Milano. Quelle, semmai, furono stragi che presero sessanta milioni di italiani “dal di sopra”. Un’ultima cosa.
Non ci aspettavamo che di fronte alla convocazione dei giudici di Palermo, Napolitano, alla maniera di Garibaldi, rispondesse: “obbedisco”. Ma, di contro, non capiamo che voglia dire il Quirinale quando scrive: “valuteremo l’ordinanza nel massimo rispetto istituzionale”. Che c’è da valutare? Non c’è proprio nulla da valutare. C’è da rispondere a una convocazione. Se Napolitano ha qualcosa da dire in più rispetto a quanto gli scrisse D’Ambrosio, se gli sta a cuore l’accertamento della verità, la dica. E facciamola finita. Se non c’è nulla da aggiungere dica – sì, sì, no, no (per dirla con il Vangelo) – che quella lettera non fu preceduta e seguita da nient’altro. E facciamola finita, anche in questa eventualità.
Ma basta con questa pianta marcia della “prosopopea quirinalizia” quotidianamente innaffiata da certi giardinieri della grande stampa!

saverio.lodato@virgilio.it

tratto da:antimafiaduemila.com