Ecco la vera storia della cattura di Priebke

di Franco Fracassi

FINTO MILIARDARIO
In febbraio a Los Angeles piove molto più di frequente che nel resto dell’anno. E quando non piove spesso è nuvoloso. Non era così che se l’aspettava la città degli Angeli il trentenne giornalista investigativo israeliano. Aveva sempre pensato che la California fosse come la zona costiera del suo Paese: assolata e piena di palme e di verde. Dal secondo piano del bianco edificio dedicato ad Harry e Jeannette Weinberg (i benefattori che ne avevano finanziato la costruzione) si poteva vedere in lontananza il Cheviot Park, ma per il resto la vista era annoiata da una monotona distesa di bassi edifici spezzata da larghe autostrade sopraelevate sempre trafficate.
Non si sarebbe mai immaginato un giorno di trovarsi in un ufficio anonimo del quartiere di Beverlywood, a poca distanza dal ben più ricco e celebre Beverly Hills. Ma il motivo che l’aveva spinto fino all’altro capo del mondo era di capitale importanza.
Le urla dei ragazzi che giocavano nel campo di pallacanestro in cemento verde chiaro e scuro dell’adiacente liceo Yeshiva lo risvegliarono dai suoi pensieri.
«Devi tornare laggiù assolutamente», stava dicendo Marvin Hier.
Il rabbino aveva fondato il Centro Wiesenthal di Los Angeles. Il giornalista si rese conto che si trovava nel suo ufficio e che era stato lui a chiedere quell’incontro. Come minimo doveva prestare ascolto a quello che veniva detto, anche se non era d’accordo con quanto gli veniva chiesto dal padrone di casa. «Non posso».
«Ascolta. Ne abbiamo parlato a lungo tra di noi. Devi tornare laggiù e dire loro che sei in grado di presentargli un milionario. Qualcuno con tanti soldi che vorrebbe contribuire al loro movimento. Anzi, torna laggiù direttamente insieme al milionario».
«Abbiamo già abbastanza informazioni rabbino. Possiamo denunciarli tutti. Tornare laggiù è troppo rischioso».
«Loro sono alla disperata ricerca di denaro. Se gli porti un milionario che investirà tanti soldi nel loro movimento ti srotoleranno un tappeto rosso e smetteranno di sospettare di te».
Svoray si era infiltrato sei mesi prima all’interno del movimento neonazista tedesco. Aveva fatto credere di essere un nazista. Un nazista americano. In quei sei mesi aveva scalato tutta la scala gerarchica all’interno del movimento neonazista, fino ad arrivare a conoscere il capo dell’organizzazione. Aveva corso tanti rischi. Era convinto che sospettassero di lui. Ma aveva raccolto prove sufficienti per far arrestare decine di persone, tra cui i dirigenti.
«Senti Yaron, lo sappiamo che hai paura. Ma se non fosse importante non ti chiederemmo di esporti a un rischio del genere. Al momento abbiamo in mano il movimento neonazista tedesco. Ma non sappiamo ancora da dove arrivano i soldi per farlo sopravvivere. E, soprattutto, ci manca il collegamento tra l’organizzazione in Germania e il resto della rete mondiale. Torna laggiù. Presentagli un milionario e vedrai che ti apriranno le porte del livello superiore, quello che nemmeno molti dirigenti neonazisti conoscono». «E chi avreste pensato come milionario?».
«Potremmo assoldare un attore. Moish», intervenne Abe Cooper, uno degli altri dirigenti del Centro presenti alla riunione con «l’infiltrato».
«Un momento. Se inviate qualcuno quella persona dovrò essere io», disse Rick Eaton, un ricercatore del Centro. «Un attore non potrebbe mai sapere come sono fatte le persone che gli capiteranno di fronte. Io le conosco. Sono anni che le studio. Sono la persona giusta».
Cooper: «Rick ha ragione. Lui conosce i gruppi dell’odio. Sa come parlano e come si atteggiano. Devi buttare i jeans che porti per indossare un completo elegante. E poi ti devi tagliare i capelli. Non t’importa di tagliarti i capelli, non è vero?».
«Chiama il barbiere».

IL COLLETTORE DI FONDI
Due settimane dopo, Rick Eaton accoglieva nella lobby dell’Arabella Sheraton Grand Hotel di Francoforte, dove alloggiava, una delegazione di tedeschi, tutti rigorosamente di fede hitleriana. Il ricercatore del Centro Wiesenthal appariva trasformato. Indossava un completo Giorgio Armani, aveva i capelli corti e al polso un orologio da centomila dollari.
Il ricercatore ebreo conosceva tutti gli individui che si erano seduti sul divano di fronte a lui. Li aveva studiati per anni. Conosceva i loro gusti e le loro debolezze. C’era Karl Wilhelm Krause, un tempo guardia del corpo di Hitler. C’era Wolfgang Juchem, additato dagli ambienti neonazisti come il nuovo Fuhrer. C’era Roy Armstrong Godenau, l’ambasciatore negli Usa del movimento neonazista. C’era Heinz Reisz, un noto neonazista tedesco di Langen, cittadina pochi chilometri a sud di Francoforte.
Era stato attraverso Reisz che Svoray era riuscito a penetrare a fondo all’interno del movimento. Tre mesi prima nel suo appartamento di Langen gli fu presentato Godenau. L’incontro che il reporter israeliano attendeva da tempo. Il nazista statunitense era il braccio destro di Juchem ed operava all’interno della rete internazionale.
«Hitler non era a conoscenza dei campi di concentramento. Aveva solo avuto notizie vaghe su Dachau», stava raccontando Krause, parlando dei tempi andati.
Lo interruppe Godenau: «Credo nei principi del nazionalsocialismo. Dirigo una casa editrice per conto di uno dei nostri funzionari dei servizi segreti tedeschi in pensione in Sudamerica. Durante la guerra faceva parte della cricca. Si fa chiamare Maler, Juan Maler. Ma il suo vero nome è Reinhard Kops. Le pubblicazioni di Maler attaccano il sionismo e la massoneria. Il nostro movimento è in espansione e ha bisogno di denaro. È Maler il collettore dei fondi provenienti da tutto il mondo. Lui li raccoglie e poi li ridistribuisce. È la nostra banca».
Era quello che Svoray ed Eaton volevano sentirsi dire. Finalmente avevano un nome di facciata e la sua identità reale, avevano un luogo e avevano un ruolo. Il 2 aprile Eaton si trovava a bordo di un aereo della Aviolinas Argentinas volava in direzione di San Carlos de Bariloche, via Miami e Buenos Aires.

UN ANGOLO DALL’ALTRA PARTE DELL’EMISFERO
San Carlos de Bariloche si trova nella provincia del Rio Negro, nella Patagonia nord-occidentale, ai piedi delle Ande, a poche decine di chilometri dal confine cileno. La città si affaccia sulle sponde del lago Nahuel Huapi, circondata dalle montagne. Non a caso è nota come la Svizzera argentina.
Il nome Bariloche deriva dal termine Mapuche Vuriloche, che significa “popolo che abita dietro la montagna”. È una famosa stazione sciistica. Ma molti turisti arrivano là per praticare anche sport acquatici, trekking e alpinismo.
Oltre che mangiare il cioccolato prodotto dagli artigiani locali.
La città venne fondata alla fine del secolo scorso da immigrati italiani, provenienti in gran parte dalla provincia di Belluno. I tedeschi cominciarono ad arrivare negli anni Trenta. Da allora Bariloche assomiglia in tutto e per tutto a una città alpina. Distese di abeti, montagne innevate, palazzi con tetti a spiovente. Un angolo della Germania dall’altra parte dell’emisfero.
Juan Maler era proprietario di un alberghetto chiamato Campana, chiuso in previsione della stagione sciistica invernale (in Argentina l’inverno corrisponde alla nostra estate).
Era lì che era diretto il milionario statunitense Rick Eaton, ufficialmente in missione per conto di Roy Godenau, in realtà inviato laggiù dal Centro Wiesenthal di Los Angeles. Sapeva che il denaro promesso non l’avrebbe mai versato nelle casse dell’organizzazione hitleriana. Sperava, nonostante questo, di riuscire a stanare il supposto banchiere dei neonazisti.
Essendo l’albergo chiuso, Maler, alias Kops, si trovava altrove. Un impiegato dell’albergo indirizzò l’esausto Eaton all’Hotel Edelweiss, a poche centinaia di metri di distanza.
Maler si rivelò un uomo basso e tarchiato. Nel freddo autunno andino si riparava la testa calva con un berretto. Era una persona cordiale. Decise di portare Eaton a fare il giro di un’ora per la città, che sorge su una penisola tra due rami del lago, e la campagna circostante, indicandogli, in un inglese comprensibile, sontuose case di villeggiatura in stile alpino.
Con un largo gesto col braccio disse: «Tutto questo è stato fatto dai tedeschi. Tutto».

Kops divenne membro della Gioventù Hitleriana prima dello scoppio della guerra. Poco prima dell’invasione della Francia, presa la tessera del Partito nazionalsocialista (numero 7524143, sezione di Amburgo, la sua città natale), entrò nell’intelligence militare, l’Abwehr.
Come agente segreto venne assegnato alla lotta anti partigiana, prima in Albania, poi in Bulgaria, in Jugoslavia e, infine, in Italia. Kops era efficientissimo. Ovunque venisse assegnato, la deportazione degli antifascisti e degli ebrei procedeva senza intoppi. Grazie al suo lavoro dietro le quinte, le Ss (l’unità paramilitare d’élite del Partito nazista) e la Gestapo (la sanguinaria polizia politica del Reich) riuscirono anche a smantellare diverse unità partigiane.
Quando, però, divenne chiaro a tutti che il Terzo Reich stava per soccombere, Kops riciclò le sue abilità di agente segreto e la sua estesa rete di contatti per mettersi al servizio della gigantesca macchina organizzativa che permise a molti nazisti di fuggire dall’Europa. Fu l’ex ufficiale dell’Abwehr a fornire i falsi documenti all’architetto dell’Olocausto Adolf Eichmann e al “boia di Lione” Klaus Barbie.
Dopo due anni di vita in clandestinità sotto la falsa identità di Hans Raschenbach, nel 1947 Kops s’imbarcò nel porto di Genova su una nave che portava a Buenos Aires. Un mese dopo l’ex agente segreto di Hitler fece la sua apparizione a Bariloche. Reinhard Kops non esisteva più. L’ufficiale basso e tarchiato di Amburgo si presentò all’ufficio del governatorato della città con un passaporto intestato a Juan Maler.
Nei decenni che seguirono Kops, oltre ad avere una doppia identità, ebbe anche una doppia vita. Mentre gestiva con profitto un alberghetto nel centro della città, adoperava le sue capacità e conoscenze per la causa nazionalsocialista.
Organizzava segretamente riunioni esoteriche, lavorava come redattore del giornale “Der Weg”, distribuito in tutti i circoli nazisti in Europa e in Sudamerica, scriveva per il mensile ultracattolico “Cabildo” e come corrispondente dall’Argentina per la rivista statunitense “The Nation”, gestiva una buona parte del patrimonio che gli uomini del Terzo Reich erano riusciti a portare con sé in Sudamerica.
Kops era considerato dal Centro Wiesenthal un pesce grosso da far abboccare all’amo.

AMMIRATORE DEL MOSSAD
Mentre Eaton illustrava il suo piano per inviare i soldi a Juchem e all’estrema destra tedesca attraverso Godenau, Maler spiegò che nei vent’anni che Godenau aveva lavorato con lui non aveva mai tenuto una contabilità come si deve. Per questo motivo insistette perché Eaton esigesse un controllo sui soldi, suggerendo il nome di un contatto in Lussemburgo, «di cui ci si può fidare per rifornire di grandi somme di denaro i vari gruppi neonazisti in Germania».
Eaton: «Ha ragione. Meglio essere cauti quando si parla di grandi somme. Proprio per questo il mio assistente Ron Furey (il nome da infiltrato di Yaron Svoray) seguirà il denaro finché non giungerà a destinazione e verrà speso in maniera appropriata».
«Di che somma si tratta?».
«Mezzo milione».
«Ottimo. La somma che ci serve. Mi raccomando, faccia attenzione soprattutto agli israeliani. Il Mossad è sulle tracce del nostro denaro e, se non fa attenzione, lo intercetteranno». Kops era un grande ammiratore del servizio di spionaggio israeliano.
«Non si preoccupi. Li conosco bene. Non mi farò fregare da loro», rispose con un sorriso Eaton.
Il 4 aprile il ricercatore di Los Angeles salì su un aereo che lo riportò a casa. Aveva ottenuto tutte le informazioni che gli servivano. O almeno così credeva.

UN COMPLEANNO POCO FORTUNATO
Il 19 aprile, il giorno che precedeva i consueti festeggiamenti in occasione della ricorrenza della nascita di Adolf Hitler, il milionario Rick Eaton e il suo assistente Ron Furey tennero una conferenza stampa al Grand Hyatt Hotel di New York. Mostrarono filmati, fotografie, documenti. Fecero ascoltare registrazioni audio. Furey, che finalmente si presentò come Yaron Svoray, raccontò il suo anno passato sotto falso nome tra le fila dei neonazisti tedeschi. Vennero consegnati alla stampa nomi, indirizzi, schemi dove venivano illustrati i legami tra i diversi personaggi. In altre parole, il reporter israeliano smascherò l’intera rete neonazista tedesca, con la speranza che la magistratura potesse fare la sua parte.
Purtroppo la fortuna non aiutò il giornalista. Mentre era in corso la conferenza stampa, alcune centinaia di agenti dell’Fbi e di altre agenzie federali stavano interrompendo un assedio durato cinquantuno giorni attaccando, anche con i carri armati, un campo trincerato della setta dei Davidiani (un gruppo religioso razzista e armato fino ai denti). Il bilancio fu di settantaquattro morti, di cui diciassette erano bambini di età inferiore agli otto anni.
I media statunitensi non dedicarono alle esplosive rivelazioni di Svoray e del Centro Wiesenthal spazi da prima pagina.
Ma l’israeliano aveva ancora una carta da giocare. Non aveva raccontato tutto. Nella conferenza stampa non aveva fatto cenno al Sudamerica. Quella parte era stata data come esclusiva alla televisione Usa Abc.

CANCELLARE LE TRACCE DEL PROPRIO PASSATO
La Abc impiegò un anno, ingenti risorse finanziarie e il suo miglior producer (Harry Phillips) per cercare tutte le conferme necessarie alla storia raccontata da Svoray. Come nella miglior tradizione del giornalismo statunitense, Phillips si mosse solo dopo aver trovato le prove della vera identità di Maler, oltre che un’approfondita conoscenza della rete segreta tessuta dai nazisti a Bariloche.
Un lavoro difficile e di grande pazienza. Bariloche è una città di provincia. Dei giornalisti a caccia di informazioni sarebbero stati scoperti immediatamente, e Kops sarebbe potuto fuggire. Per dare meno nell’occhio Phillips assunse una ricercatrice di Buenos Aires, figlia di immigrati ebrei tedeschi, Dalila Herbst.
La donna fece un gran lavoro, considerando la situazione. Incontrando al bar ristorante Vecchia Monaco il numero due della comunità ebraica della città (a Bariloche vivevano circa duecento ebrei) si sentì dire: «Noi conosciamo perfettamente chi sono gli ex nazisti. Li conosciamo uno a uno. Ma nessuno di noi ha mai detto una parola alle autorità. Abbiamo paura. Qui in città c’è una vera e propria ragnatela di omertà».
La regola della città era «vivi e lascia vivere».
A Bariloche gli uomini di Hitler erano onnipotenti. Erano arrivati a decine di migliaia. Avevano cambiato nome. Si erano impiegati nel commercio, nell’artigianato, nel turismo, nelle banche. Preoccupati soprattutto di cancellare le tracce del proprio passato. Quanto meno, cancellarle di fronte agli occhi degli estranei.
In città gli ex nazisti svolgevano un’intensa vita sociale. Si organizzavano balli nel Deutscher Klub, riunioni presso l’Associazione culturale tedesco-argentina, escursioni in montagna e feste nella casa del dottor Mariano Barilari.
Tutti sapevano che in una casa disabitata, ogni 20 aprile, si celebrava il compleanno del Fuhrer. La Herbst riuscì a farsi raccontare dettagliate descrizioni: le bandiere con le svastiche, i discorsi ufficiali, le rievocazioni, le canzoni patriottiche del Terzo Reich. Laggiù, per la cerimonia, arrivavano accoliti da tutta l’Argentina.

IL JACKPOT
4 aprile 1994. Sam Donaldson, giornalista del programma “Prime Time Live” della statunitense Abc, arrivò a San Carlos de Bariloche con la sua troupe a bordo di un jet privato, decollato da Washington dieci ore prima. Erano in cerca di nazisti.
Phillips raccomandò ai piloti dell’aereo di rimanere nascosti: «Ragazzi, dovete sparire per ventiquattro ore. Domani alle 15 in punto ritornate qui e riportate a casa Sam Donaldson».
Passarono la notte in un albergo nella periferia della città, sulle sponde del lago Nahuel Huapi. Dissero al concierge che erano turisti facoltosi. Il producer raccontò che era venuto a pescare nel lago una volta e che era tornato insieme ai suoi amici. Quel giorno, infatti, il gruppo aveva deciso di girare per la città. Dovevano essere credibili come turisti. Non erano andati subito in cerca di tedeschi.
Il mattino seguente la squadra della Abc si mise in moto. Era formata da due cameraman, due interpreti, Donaldson e Phillips.
Alle 7.00 si appostarono fuori della casa di Maler. Una villetta unifamiliare bianca, con il tetto a spiovente rosso. Per non dare nell’occhio restarono tutti dentro due furgoncini Volkswagen.
Poco prima delle 8.00 Maler uscì. La troupe non fece in tempo a reagire, perché arrivò immediatamente un taxi, su cui salì il tedesco. Indossava un giaccone grigio e un basco nero. Aveva con sé anche una borsa di pelle nera.
I due furgoni fecero fatica a stare dietro al taxi. Per fortuna l’auto accostò davanti a una farmacia. Donaldson disse col walkie talkie: «State pronti.
Quando ve lo dico, uscite tutti in strada dietro di me».
Pochi minuti dopo Maler uscì dalla farmacia. La troupe della Abc gli stava addosso.
«Signor Maler, sono Sam Donaldson, della televisione americana Abc News».
«Sì, ma che sapete? Cosa volete?».
«Il suo nome è Reinhard Kops?».
«Mi scusi, ma non ho tempo per queste cose». Il nazista cercò di sfuggire alle telecamere.
Donaldson lo incalzò: «Questa non è una foto di quando era nel partito nazista?», mostrando una foto che gli aveva dato Phillips, in cui si vedeva Kops in divisa militare.
«Non sono mai stato un membro del partito nazista».
«Lei è Reinhard Kops?».
«No».
«Noo?».
«No. Lo ero. Lo ero nel ’52. L’ambasciata tedesca mi diede questo nome».
«Quale nome?».
«Maler».
«E quale era il suo nome prima di Maler?».
«Kops».
«Il suo nome è Kops».
«Sì. No, no. Lo era».
«Conosce le ratline? Sa cos’è una ratline?».
«No. No. No».
«Ne è proprio sicuro? Guardi che a noi risulta che lei abbia avuto un ruolo di primo piano nella fuga dei nazisti dall’Europa».
«So adesso che esisteva una cosa del genere. All’epoca non ne ero a conoscenza».
Donaldson lo incalzava. E Kops accusava sempre di più i colpi. Negava. Si contraddiceva. Era chiaramente in difficoltà.
«Io non sono mai stato in Albania con le Ss».
«Ne è sicuro? Ho qui altri documenti». Gli fece ascoltare una cassetta registrata un mese prima dal centro Wiesenthal a sua insaputa.
Kops comprese che, per salvarsi, doveva spostare l’attenzione su qualcun altro.
Rischiava grosso, e lui lo sapeva.
«Qui ci sono ancora dei nazisti. Tanti. Glielo assicuro».
Maler prese Donaldson da una parte e cominciò a parlare sottovoce, dimenticandosi che il giornalista aveva un microfono addosso.
«Io sono un pesce piccolo dell’organizzazione. Perché non va a cercare il capo? Perché non va a cercare Priebke? Il suo nome è Priebke. P, r, i.».
«Priebke?».
Phillips capì che avevano in mano l’intero jackpot. Le due telecamere avevano registrato la confessione di Kops. E adesso avevano anche la conferma della presenza di Priebke a Bariloche. Il producer della Abc era già al corrente di questa informazione. Sentirselo dire davanti alle telecamere da parte di un ex nazista era un’altra cosa.
Erik Priebke era stato il vice di Herbert Kappler durante il massacro delle Fosse Ardeatine, a Roma. Il 24 marzo 1944 i nazisti uccisero con un colpo alla nuca 335 italiani, in risposta a un attentato compiuto dai partigiani il giorno prima. Priebke era l’uomo che, successivamente, il Centro Wiesenthal accuserà di essere il terzo per ordine di importanza dei comandanti della Gestapo in Italia. Un torturatore, un cacciatore di ebrei e di antifascisti, un uomo che era macchiato di crimini contro l’umanità.
Donaldson, non credendo alle proprie orecchie, si fece spiegare come trovare l’ex capitano delle Ss e lo andò a trovare.
Erich Priebke si era trasferito a Bariloche nel 1954. Divenne presto affettuosamente noto come “don Erico”, l’affabile proprietario del Vienna Delicatessen, dove si vendevano i migliori affettati della città. E dove correva voce che, nel retro, fosse appeso in bella mostra un ritratto di Hitler. Notizia, quest’ultima, mai verificata.
Nel 1994 l’ex capitano delle Ss era preside del liceo tedesco della città.
Ma quando Maler indicò a Donaldson Erich Priebke come il capo dell’organizzazione, con ogni probabilità si riferiva alla struttura che finanziava i neonazisti in Germania e, forse, nel resto del mondo.

PUNTUALE COME AL SOLITO
La troupe attese Priebke fuori dalla scuola. Sulla facciata dell’edificio era scritto a grandi lettere: «Asociacion cultural germàno-argentina. Escuela academia “Primo Capraro”». Secondo le informazioni raccolte dalla Herbst, il nazista era un abitudinario, ed era anche preciso come un orologio. In quel momento, come tutte le mattine a quell’ora, stava facendo lezione ai bambini. La ricercatrice insisteva che sarebbe uscito dall’edificio alle dodici e un minuto. Puntuale come sempre.
I due furgoni con le telecamere erano stati piazzati davanti all’ingresso. La troupe comunicava con i walkie talkie.
Diversamente dal solito, però, Priebke non era uscito da casa a piedi. Quella mattina aveva preso l’auto. Aveva parcheggiato la sua macchina proprio davanti alla scuola. Quindi, c’era il rischio che andasse via subito o che scappasse.
La troupe aveva poco tempo per bloccarlo.
Esattamente alle 12.01 uscì dall’edificio.
«Eccolo. Dai! Dai! Dai! Dai! Dai!». Donaldson e i cameraman scattarono fuori dai furgoni.
«Signor Priebke, Sam Donaldson, televisione americana».
Il nazista si voltò, e sorrise.
«È lei Priebke?».
«Sì. Mi dica. Sì».
«Lei era nella Gestapo nel ’44, giusto? A Roma?».
«Sì, a Roma. Esatto».
«Era presente alle Fosse Ardeatine durante l’eccidio?».
«Sa come andò? I comunisti fecero saltare in aria un gruppo di soldati tedeschi. Per ogni soldato tedesco morirono dieci italiani».
«Ma perché li ha uccisi? Non avevano fatto niente».
«Sa, gli ordini erano quelli».
«Ma questa non è una giustificazione».
«Ah, beh! A quei tempi un ordine era un ordine. Punto e basta».
«Quindi ha solo eseguito degli ordini».
«Sì. È così. Esatto. Io non ho sparato a nessuno». In realtà aveva sparato a due persone.
«Era presente all’uccisione dei civili?».
«Beh, in qualche caso sì. Le prime volte. Sì».
«Ha fatto il suo lavoro».
«Sì. Dovevo fare il mio lavoro».
«E sono morti dei civili?».
«Sono morti dei civili».
«Lo sa che lei è un criminale di guerra?».
«Già. Lei vive in quest’epoca. Ma io ero nel 1933. Ed era un’altra cosa».
«Secondo lei, un anziano deve pagare per i crimini che ha commesso da giovane?».
«Ma quello non era un crimine. Eravamo in guerra».
«Uccidere dei civili è contro tutte le convenzioni internazionali».
«Sì. Ma non a quell’epoca».
«Che cosa prova pensando che sei milioni di ebrei sono stati uccisi, giustiziati?».
«Sono veramente dispiaciuto di questo. Sono addolorato».
«Però, li ha uccisi».
«Molti uomini hanno fatto queste cose da giovani. E ora che sono vecchi se ne pentono».
«Molte persone pensano che lei dovrebbe essere giustiziato».
Priebke, indignato, aprì la portiera della sua auto. «Lei mi ha praticamente assalito. Non è stato cortese con me. Lei non è educato». Sbatté lo sportello e andò via.

 
LA FUGA
Donaldson disse a Phillips: «Dobbiamo lasciare questa città il più rapidamente possibile. Ho paura che qualcuno voglia impedire che questi nastri lascino Bariloche».
Venne immediatamente allertato l’equipaggio del jet. Due ore dopo il giornalista era in volo. 5 maggio 1994. Sei settimane dopo la celebrazione del cinquantesimo anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Donaldson: «Buona sera. Oggi vi raccontiamo in che modo migliaia di presunti criminali nazisti siano sfuggiti alla giustizia».
Il filmato dell’intervista fece il giro del mondo e, naturalmente, venne visto anche in Italia. Priebke venne arrestato. E l’Italia chiese e ottenne la sua estradizione. L’ex Ss venne condannato all’ergastolo, anche se da scontare agli arresti domiciliari in un appartamento a Roma, data la sua età. Kops, pressato dai giornalisti di tutto il mondo, sparì. Pochi giorni dopo riapparve a Osorno, nel Cile meridionale.
Questa storia dimostrò, più di qualunque altra, che gli ex nazisti non erano tali. Non si trattava di anziani signori che volevano dimenticare il passato. Erano persone ancora legate al credo hitleriano. E, soprattutto, che la rete internazionale nera era ancora funzionante. Il nazismo si era riorganizzato e si stava finanziando, nel nuovo mondo, attraversato dalle guerre etniche e di religione e dagli odi di razza.

Fonte: http://popoff.globalist.it/Detail_News_Display?ID=88368&typeb=0&Ecco-la-vera-storia-della-cattura-di-Priebke.
Tratto da :Megachip