PIANGE IL TELEFONO

Stamane vado di fretta e ve la farò breve.

La notizia che si legge sui giornali italiani è che Telecom, tra non molto, parlerà spagnolo. Ma la notizia che non leggerete mai sulla stampa italiana è che l’acquirente, ossia Telefonica, verosimilmente, per portare a compimento l’operazione, verrà finanziata da qualche banca spagnola -già fallita- e salvata con i soldi dei contribuenti Italiani attraverso il fondo salva stati e banche ESM, al quale  l’Italia partecipa con 125 miliardi di euro, presi a debito sui mercati. Di come l’Italia abbia contribuito al salvataggio delle banche spagnole, lo abbiamo spiegato QUI.
Ricapitolando, per rendervela ancora più semplice, possiamo dire che TELEFONICA (società spagnola), attraverso la controlla TELCO, acquista TELECOM (Società Italiana). La quale Telefonica, avendo necessità di capitali  per compiere l’operazione, verosimilmente, si farà finanziare da qualche banca spagnola. La quale banca spagnola, a sua volta, è stata salvata con i soldi dei contribuenti italiani attraverso il fondo ESM. I quali contribuenti, per poter conferire  i soldi nel fondo ESM  (e da questo alle banche spagnole che finanziano l’acquisto di Telecom da parte di Telefonica), essendo straccioni,  sono stati spremuti di tasse per rendersi presentabili sul mercato e per ottenere la fiducia degli investitori che hanno prestato i soldi all’Italia, a fronte del pagamento di lauti interessi.
Chiaro, no?

Potete anche evitare di leggere i dettagli riportati nel pezzo che segue, tratto da Il Sole 24 Ore. Le cose importanti le avete già lette sopra.
Telefonica sale dal 46 al 66% di Telco dopo l’aumento di capitale da 323 milioni e realizzerà un secondo aumento di capitale da 117 milioni, dopo l’ok dell’Antitrust in Brasile e Argentina, per arrivare al 70% della holding. Lo si legge nella nota della compagnia spagnola. Ieri il titolo Telecom ha chiuso in rialzo del 3,4% a 0,59 euro. Telefonica manterrà i diritti di voto in Telco spa all’attuale 46,1% anche dopo i due aumenti di capitale (che porteranno la sua quota al 70% della holding). Lo si legge nella nota della compagnia spagnola secondo cui dal 1 gennaio 2014, dopo l’ok dell’Antitrust di Brasile a Argentina, i diritti di voto potrebbero salire al 64,9%.
“Siamo soddisfatti di aver concluso questo accordo che è in linea con i nostri obiettivi di rafforzamento patrimoniale e che ci permette di guardare con ottimismo alla distribuzione di un dividendo soddisfacente a fine anno”. Questo il commento del ceo di Generali, Mario Greco, all’accordo con Telefonica per il riassetto di Telco che controlla Telecom. Generali rende inoltre noto che la svalutazione netta della quota Telco sarà di circa 65 milioni e sarà registrata nel terzo trimestre del 2013. L’accordo definisce infine in modo chiaro i possibili periodi di uscita da Telco – il primo a giugno 2014; il secondo a febbraio 2015 – e riduce i rischi patrimoniali derivanti dallôeventuale futura cessione a Telefonica.
Opzione per Telefonica di salire al 100% di Telco, la holding che controlla Telecom con il 22,4% del capitale, dal primo gennaio 2014. In base all’accordo sottoscritto questa notte tra gli spagnoli di Telefonica e i soci itliani presenti in Telco, Intesa Sanpaolo, Generali e Mediobanca, “a decorrere dal primo gennaio 2014, Telefonica avrà la facoltà (opzione call) di acquistare per cassa tutte le azioni dei soci italiani in Telco, ad un prezzo determinato valorizzando la partecipazione di Telco in Telecom Italia al maggiore tra 1,1 euro e il prezzo di mercato delle azioni al momento dellôesercizio della opzione call”. Lôesercizio dellôopzione sarà soggetto allôottenimento da parte di Telefonica di tutte le autorizzazioni regolamentari e antitrust. “In caso di esercizio della opzione call, Telefonica sarà obbligata ad acquistare, a valore nominale, anche tutte le quote residue del prestito obbligazionario emesso da Telco detenute dai soci italiani a fronte del pagamento di un corrispettivo composto per il 50% in contanti, e per il restante 50%, a scelta di Telefonica, in contanti e/o in azioni di Telefonica”.
Con la cessione di Telecom a Telefonica, ormai apparentemente dietro l’angolo, termina definitivamente l’era della telefonia tricolore, visto che più nessun operatore presente in Italia sarebbe a controllo nazionale. Ecco i momenti salienti della storia delle principali compagnie di telefonia mobile, nate in Italia e poi cedute ad azionisti stranieri- VODAFONE: ha origine con Omnitel, fondata il 19 giugno 1990 da Olivetti, Lehman Brothers, Bell Atlantic e Telia. Nel 1999, Olivetti, a seguito dell’acquisizione di Telecom Italia, provvede alla cessione, richiesta dalle norme sulla concorrenza, delle sue partecipazioni in Omnitel e Infostrada a Mannesmann. La partecipazione di Mannesmann in Omnitel sale dunque al 53,7%. Mannesmann, poi, vende nel 2001 il settore delle tlc, così Omnitel passa sotto il controllo di Vodafone Group; assume la denominazione di Omnitel-Vodafone nel 2001, di Vodafone-Omnitel nel 2002 e, infine, nel 2003, l’attuale denominazione di Vodafone Italia. Tuttavia, il 2 settembre 2013, Verizon Communications ha annunciato di aver raggiunto un accordo per acquistare la partecipazione di Vodafone, il 45%, per 130 miliardi di dollari in un accordo atteso entro il primo trimestre del 2014. Tale accordo prevede che Gruppo Vodafone acquisti l’altro 23% in possesso di Verizon in Vodafone Italia. In questo modo, entro il 2014, Vodafone Italia sarà interamente di Vodafone.

– WIND: Wind Telecomunicazioni nasce alla fine del 1997 grazie all’investimento di Enel, France Télécom e Deutsche Telekom. Nel 2001 c’è poi l’acquisizione di Infostrada da parte di Enel, azionista di maggioranza, e nel 2002 diviene operativa la fusione per incorporazione di Infostrada in Wind. Nel luglio del 2003 Wind Telecomunicazioni è tutta italiana: Enel ne diventa l’unico azionista acquistando il restante 26,6% da France Télécom. Nel 2005 il gruppo Enel cede la quota di maggioranza di Wind Telecomunicazioni al magnate egiziano Naguib Sawiris, già proprietario della Orascom. Il 4 ottobre 2010 Weather Investments (ora Wind Telecom S.p.A., controllata da Naguib Sawiris) e il gruppo russo VimpelCom annunciano con un comunicato la loro fusione, a seguito della quale, VimpelCom assumerebbe il controllo del 51,7% di Orascom Telecom Holding e del 100% di Wind Telecomunicazioni.- TRE: 3 Italia appartiene alla multinazionale cinese Hutchison Whampoa. Il gruppo 3 è il più grande gruppo di telefonia mobile al mondo per numero di clienti in tecnologia Umts e, soprattutto, è stato il primo a lanciare tale tecnologia in Europa. Nata il 18 novembre 1999 con il nome Andala Umts, grazie a Franco Bernabè (10%) e Renato Soru (con Tiscali al 90%), ha ottenuto nel 2000 la licenza Umts vincendo la relativa gara. A seguito di tale ottenimento, sempre nel 2000, entrano nuovi soci nella compagine azionaria, ma il 12 agosto il 51% viene acquisito da Hutchison Whampoa Limited: Hwl salirà poi all’88,2% nel giro di due anni. Ha lanciato i servizi Umts il 3 marzo 2003 con il marchio 3.

Da Dagospia

TELECOM: ALTRO CHE CONCORDIA, LA STORIA DELLA COMPAGNIA TELEFONICA È EMBLEMATICA DEL DECLINO DEL BELPAESE

Oggi si guarda alla prossima scadenza del patto tra gli azionisti di Telco, la holding che controlla Telecom, e al consiglio di amministrazione del 3 ottobre, come all’inizio di una nuova era. Eppure, quindici anni di lenta agonia suggeriscono scetticismo e, forse, rassegnazione.

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LA MADRE DI TUTTE LE PRIVATIZZAZIONI
Telecom Italia nasce con la privatizzazione del 1997 voluta dal governo Prodi. E parte con un difetto d’origine: uno Stato dirigista o, ancor peggio, che vorrebbe esserlo, ma non ne è capace. A prescindere dal colore dei governi. Così le privatizzazioni si fanno solo per far cassa e perché lo impone l’ingresso nell’euro. Pertanto Telecom viene collocata come un monopolio integrato, perdendo l’occasione per creare concorrenza in un settore agli albori della liberalizzazione e nella sua fase di massima crescita.

guido rossiGUIDO ROSSI

Ma il Tesoro riesce ad incassare 12 miliardi di euro per il 42%, più di quanto oggi valga l’intera società. E si perde l’occasione per promuovere il mercato dei capitali, perché lo Stato vuole pilotare il controllo in mani amiche. Si sceglie l’approccio del nocciolo duro, con Agnelli primo azionista (e un investimento risibile, come d’abitudine) e Guido Rossi presidente.
Per facilitargli il controllo, non si convertono le azioni di risparmio (senza diritto di voto), sopravvissute fino a oggi. Cambiano i vertici: Rossignolo e poi Bernabè (l’attuale presidente, non suo figlio). Ma l’interesse dei nuovi azionisti privati è solo di incassare il dividendo della rendita monopolistica. E l’azienda rimane un pachiderma sonnacchioso e pieno di soldi.

berlusconi dalema colaninnoBERLUSCONI DALEMA COLANINNO

I CAPITANI CORAGGIOSI
L’avvento dell’Euro, nel 1999, elimina la barriera del rischio di cambio, spalancando all’Italia le porte del mercato internazionale dei capitali. Cade così uno dei principali vincoli strutturali alla crescita nel nostro Paese: fino ad allora, il risparmio nazionale era obbligatoriamente incanalato verso il finanziamento del debito pubblico; e poiché il rischio lira scoraggiava l’ingresso degli stranieri, i gruppi italiani dovevano operare in uno stato di razionamento dei capitali, dal quale Mediobanca, che agiva da surrogato al mercato finanziario, traeva la propria forza. Con l’Euro tutto questo finisce.
Colaninno & Co. sono rapidi a sfruttare questa opportunità, e raccogliere all’estero gli ingenti prestiti necessari a lanciare un’Opa su Telecom. Quello che poteva essere l’inizio di un mercato dei capitali efficiente, dove il controllo delle aziende va a chi è più bravo a gestirle, scardinando dirigismo e capitale di relazioni, e permettendo ai gruppi italiani di crescere in competizione con quelli stranieri, si trasforma presto in una cocente delusione: invece di fondere holding e società operative create per scalare Telecom, concentrarsi sulla gestione industriale e ripagare l’enorme debito contratto, i capitani coraggiosi si comportano da vecchi capitalisti nostrani, perpetuando la lunga catena societaria creata con l’Opa per valorizzare il premio di controllo nella holding Bell (lussemburghese, naturalmente).

GIANNI LETTA PAOLO CUCCIA E MARCO TRONCHETTI PROVERAGIANNI LETTA PAOLO CUCCIA E MARCO TRONCHETTI PROVERAFRANCO BERNABE AD TELECOMFRANCO BERNABE AD TELECOM

La preoccupazione resta il controllo, con il minimo dei capitali e il massimo del debito. Ma la bolla della dot.com scoppia, e con essa le valutazioni insensate che il mercato attribuiva alle telecomunicazioni. Per Colaninno & Co. è un brusco risveglio: il valore di Telecom crolla, ma i debiti rimangono; e i creditori bussano alla porta. In Italia, però, c’è sempre qualcuno pronto a strapagare il controllo (coi soldi di banche amiche) pur di soddisfare voglie di impero.
LA VOGLIA DI IMPERO DI TRONCHETTI
Liquido perché baciato dalla fortuna durante la bolla Internet, Tronchetti Provera vede nelle difficoltà dei capitani coraggiosi l’occasione per costruire il proprio impero. Ma l’ambizione acceca. Nel 2001 strapaga il controllo di Telecom; naturalmente il premio va alla Bell (quasi tax free), non al mercato come da italica abitudine. E perpetua gli errori di Colaninno & Co., esercitando il controllo con una catena societaria ancora più lunga (Olimpia al posto di Bell, più Pirelli, Camfin eccetera), e ancora più debito, ovviamente con il sostegno di Intesa e Unicredit, socie in Olimpia.

ANDREA RAGNETTI E ROBERTO COLANINNOANDREA RAGNETTI E ROBERTO COLANINNO

Poi infila una serie incredibile di errori. Per far fronte ai debiti vende tutte le attività che la Telecom dei capitani coraggiosi aveva acquistato all’estero, in mercati a forte crescita (unica decisione giusta); salvo poi accumularne di più per fondere Tim con Telecom, puntando prevalentemente sulla telefonia mobile in Italia: un mercato in via di saturazione, a bassa crescita e sempre più concorrenziale. E non investe nella banda larga, perdendo il treno di Internet. Così, nel 2006, Tronchetti si trova nella stessa situazione di Colaninno & Co. nel 2001: il valore di Telecom in calo irreversibile; troppo debito; e i creditori alla porta. Ma questa volta non c’è un altro aspirante imperatore in Italia, così Tronchetti cerca di vendere agli americani di AT&T o al messicano Slim. Orrore!

LUCIANO LAMA E GIANNI AGNELLILUCIANO LAMA E GIANNI AGNELLI

L’OPERAZIONE DI SISTEMA
In Italia, come nel gioco dell’oca, ogni tanto si torna al via. Nel 2006, Prodi è nuovamente al Governo e il sempreverde animo dirigista impone la salvaguardia di una azienda “strategica per il paese”. Se però il mercato dei capitali non funziona (meglio, non lo si crea) e l’Europa impedisce allo Stato di intervenire, ci si inventa “l’operazione di sistema”. Al comando torna Guido Rossi (quello del 1997), con il compito far uscire indenne Tronchetti e creare un patto per mantenere il controllo in mani italiane.
Ancora una volta, prioritari sono debito, controllo e relazioni con il Governo: le prospettive del settore, e quale sia il modo migliore per valorizzare l’azienda, sono aspetti marginali. Chi allora meglio di Banca Intesa, autoproclamatasi banca di sistema, insieme al salotto buono di Mediobanca e Generali, per un’operazione di sistema gradita al Governo? Con la spagnola Telefonica, comprano il controllo da Olimpia, rinominata Telco (senza che il mercato veda un euro), facendo uscire Tronchetti prima che l’avventura Telecom lo porti al dissesto. E finanziano l’operazione a debito. Nulla cambia nella struttura finanziaria (troppo debito) e proprietaria (controllo in una holding fuori mercato).

GIANNI LETTA TRONCHETTI PROVERAGIANNI LETTA TRONCHETTI PROVERAenrico cuccia xENRICO CUCCIA X

Telefonica è straniera, ma non conta: la Spagna ha un capitalismo come il nostro e ci si intende. E poi ha una quota di minoranza. Ma in questo modo le si concede di fatto un diritto di prelazione sul controllo futuro, magari a prezzo di saldo. Infatti sembra che oggi Intesa, Mediobanca e Generali, non potendo più permettersi le perdite che le operazioni di sistema inevitabilmente generano, stiano cercando di vendere a Telefonica la loro quota in Telco (naturalmente fuori mercato); a una frazione di quanto avrebbero incassato cinque anni fa. Come con Air France in Alitalia, o Edf in Edison: le operazioni di sistema non mi sembrano capolavori di astuzia.
LA LENTA AGONIA
Nel 2007, il comando torna a Bernabè (quello del 1998). Da allora sfoglia la margherita. Il debito è rimasto quello di 13 anni prima, ma i ricavi dalla telefonia in Italia, dove l’azienda è concentrata, sono in declino irreversibile e non generano cassa bastante a rimborsarlo. Ci vorrebbe un forte aumento di capitale, ma i soci non hanno soldi. Anzi, vogliono uscire. E, in ogni caso, non si saprebbe come remunerarlo adeguatamente. Non si può vendere Tim per consolidare un mercato nazionale troppo frazionato perché evidenzierebbe una perdita colossale derivante dall’abbattimento del valore dell’avviamento a bilancio.

agnelli enrico cucciaAGNELLI ENRICO CUCCIA

Vendere il Brasile, che pure è ai massimi, significherebbe fossilizzarsi in un mercato in declino. Non ci sono i soldi per investire nella rete e ci sarebbero problemi a remunerare gli investimenti anche perché la regolamentazione impone di spartirne la redditività con i concorrenti. Né si può venderla, perché la Cassa depositi sarebbe il solo compratore accettabile per il governo: una sorta di nazionalizzazione antistorica e impraticabile; e Telecom perderebbe l’asset con le migliori prospettive. Fare l’azienda a pezzi e offrirli sul mercato globale al migliore offerente, approfittando dell’attuale ondata di fusioni e acquisizioni nel mondo equivarrebbe, nella lingua italiana, a una bestemmia.

ENRICO CUCCHIANI GIOVANNI BAZOLIENRICO CUCCHIANI GIOVANNI BAZOLI

IL MORTO CHE CAMMINA
Non capisco la frenetica attesa con cui si attende la fine del patto in Telco a fine settembre e l’ennesimo “nuovo piano industriale” (quanti ne sono stati presentati?) nel consiglio del 3 ottobre. Non può essere risolutivo perché il problema, ancora una volta, non è una questione prettamente finanziaria, di controllo, o di chi sia al vertice; ma di un’azienda priva di prospettive, ancorata a un paese senza crescita, incapace di stare al passo con i rapidi e repentini cambiamenti del settore. Definire Telecom un morto che cammina, ridotto in questo stato da una vicenda che è lo specchio delle storture del Paese, sembra quasi un eufemismo.Da Lettera43

Nella notte la fumata bianca. Telecom è diventata spagnola, passando in mano a Telefonica. Colpa (o merito) dell’accordo che la compagnia spagnola ha raggiunto con Mediobanca, Generali e Intesa per salire dal 46,2 al 66% delle azioni della Telco, la società controllante della compagnia italiana dei telefoni con il 22,4%. Telefonica ha anche un’opzione per crescere ancora con un secondo aumento di capitale da 117 milioni, dopo l’ok dell’Antitrust in Brasile e Argentina, per arrivare al 70% della holding. Poi potrà anche arrivare al 100% entro il 2014.
Per il momento si tratta di un affare da 324 milioni (tanto incasseranno i grandi azionisti) che non solo priva l’Italia del suo ultimo asset nelle telecomunicazioni, ma di fatto crea una serie di criticità.

1. Per comandare basta il 22,4%

Per governare la Telecom, una public company con l’azionariato molto diffuso, basta il 22,4% delle azioni, che è la quota posseduta da Telco.
Telefonica, salendo al 66% della controllante, si è di fatto imposta come maggiore azionista, e nel 2014 potrà addirittura rilevare tutta Telco. Quest’ultima è una società finanziaria (una scatola cinese, come si dice in gergo) finora governata da Generali (30,6%), Mediobanca (11,6%) e Intesa Sanpaolo (11,6%), impegnate nelle ultime settimane in una lunga trattativa con gli spagnoli – che ne detenevano già il 46,2% – e conclusa solo nella notte tra lunedì 23 e martedì 24 settembre.

2. In sei anni svalutazione da 2,82 a 1,09 euro

Da quando nel 2007 fu costituita Telco, il valore delle azioni di Telecom Italia è precipitato. La holding composta da Telefonica, Generali, Mediobanca e Intesa, ha acquistato in parte le quote della vecchia Olimpia pagando un prezzo di 2,82 euro per azione a Marco Tronchetti Provera, mentre alcuni soci, come Generali e Mediobanca, hanno conferito in Telco titoli Telecom che avevano in carico a un prezzo superiore a 2,7 euro per azione.
A causa degli aumenti di capitale e di alcune svalutazioni dei titoli in portafoglio, le perdite accumulate dagli azionisti di Telco in sei anni superano la cifra di 1,3 miliardi.
I buchi nel bilancio Telecom hanno influito sul valore delle azioni possedute dalla controllante: nel 2008 il prezzo di carico dei titoli era già sceso a 2,18 euro. Poi, nel 2011, un altro calo a 1,5 euro. Infine, nel febbraio 2012, l’ultima svalutazione a 1,2 euro.
Alla vigilia del passaggio di mano, in Borsa il titolo Telecom valeva 0,59 euro, ma Telefonica ha ora valutato ogni azione 1,09 euro, destinati alle tasche dei tre grandi gruppi finanziari italiani.

3. Nessun premio per i piccoli azionisti

A perderci, ancora una volta, sono soprattutto i piccoli investitori, che dall’operazione non traggono alcun vantaggio economico, se non parzialmente dalla crescita in Piazza Affari. Il titolo è infatti volato in Borsa nella chiusura del 23 settembre, guadagnando il 3,4% sulla scia delle voci che davano ormai vicina la conlusione della trattativa. E anche in apertura del 24 si sono registrati forti rialzi, ma è ancora da valutare il comportamento nei giorni successivi a  quello della grande euforia.
Da quando è stata fondata, Telco non ha mai remunerato i suoi azionisti, e ha richiesto due ricapitalizzazioni da parte dei soci che dovevano sostenere gli aumenti di capitale di Telecom.
Telefonica, tra l’altro, non sembra una compagnia così solida, oberata di debiti, alle prese con la crisi spagnola. D’altra parte si sa, se Roma piange, certamente Madrid non ride.

4. Telefonica ha più debiti di Telecom

I conti di Telecom sono in sofferenza, ma quelli di Telefonica lo sono ancora di più. Ai circa 40 miliardi di debito della società italiana se ne aggiungono quindi un’altra cinquantina. Nonostante un secondo trimestre 2013 con ricavi superiori alle attese, gli spagnoli sono in calo rispetto all’anno precedente, con una riduzione del 6,8% del fatturato a 14,4 miliardi di euro, contro stime ancor più negative che prevedevano un arrivo a 14,1 miliardi.
C’è poco da stare tranquilli, comunque, perché il trend rimane non buono, sebbene secondo alcune fonti il debito del gruppo iberico sia sceso di poco sotto la soglia critica dei 50 miliardi, a quota 49,8, e Telefonica annunci di puntare ai 47 miliardi di debito entro la fine dell’anno.
D’altra parte la stessa Telco, che in Borsa ha una valutazione di 1,56 miliardi, ha sul groppone pesanti debiti: 1,05 miliardi dei quali solo con il sistema bacario.

5. Gli investimenti in banda larga sono una chimera

Per questi motivi è difficile ipotizzare che arrivino i tanto attesi e necessari investimenti sulla banda larga e sullo sviluppo della rete italiana (peraltro non previsti dall’accordo di cessione). I margini di profitto nel settore per gli operatori europei sono in calo da tempo, e il livello degli investimenti pro-capite in ricerca e sviluppo nelle telcomunicazioni, in Europa, è inferiore di oltre il 30% rispetto a quelli americani.
Eppure, in particolar modo in Italia, sarebbe essenziale puntare sulla banda larga. Ma né Telecom né tantomeno Telefonica ne hanno la forza. Per questo, forse, lo scorporo della rete auspicato (o anche imposto) dall’Agcom potrebbe essere indispensabile.
Nel frattempo gli analisti prevedono che Telefonica, per finanziare l’acquisto, provvederà a vendere Tim Brasile, l’asset estero più importante e di maggior valore della società italiana.

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Tratto da:Vincitori e vinti