Tiro all’Ingroia sport nazionale

di Gian Carlo Caselli – 15 giugno 2013
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Per anni e anni Antonio Ingroia è stato considerato l’erede professionale di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Di Borsellino era stato anche sostituto nella Procura di Marsala. Poi l’aveva seguito alla Procura di Palermo e se l’era visto uccidere da Cosa Nostra neanche due mesi dopo l’assassinio di Falcone. Invece di scappare verso uffici più comodi, è rimasto a lavorare a Palermo in procura, divenendo titolare o contitolare di importantissime indagini antimafia che l’hanno esposto a rischi gravissimi: costringendolo a vivere perennemente circondato da militari, cani lupo, filo spinato e sacchetti di sabbia persino sul pianerottolo di casa.

Grazie al suo sacrificio, al suo impegno e ai lusinghieri risultati ottenuti, Antonio Ingroia è anche diventato – per moltissimi italiani, non solo magistrati – un punto di riferimento e un modello. Poi, di colpo, è finito nel punto d’incrocio della raffica di assalti furibondi scatenati ormai da anni contro la magistratura e in particolare contro l’antimafia che nella Procura di Palermo ha sempre avuto un suo epicentro. Con un preciso obiettivo: una riforma che consegni alla “politica” il potere di aprire o chiudere il rubinetto delle indagini penali e di regolarne l’intensità in modo da circoscrivere il rischio che si scoprano verità sgradevoli. Ed è così che Ingroia – bombardato da accuse per lo più grottesche – è stato trasformato in una specie di monsieur Malaussène, quello che nei romanzi di Daniel Pennac fa di professione il “capro espiatorio”. Secondo un copione già collaudato con Falcone, ingiustamente accusato di nefandezze varie, con la conseguente, micidiale calunnia di svilire la ricerca della verità ad azione politica ispirata da una fazione ai danni di un’altra.
Gli attacchi scagliati contro Ingroia si sono intensificati quando il bersaglio da affondare è diventato l’inchiesta rubricata come “trattative”: un’inchiesta obiettivamente molto difficile e tormentata, della quale è legittimo ragionare in termini anche piuttosto critici. Mentre non è consentito il linciaggio irrispettoso – di fatto praticato su scala industriale da un larghissimo spettro di “osservatori” – dei magistrati coordinati da Ingroia che l’hanno condotta con coraggio e fatica. Linciaggio che non è cessato (anzi, è paradossalmente aumentato) dopo che il Gip ha disposto il rinvio a giudizio degli imputati, riconoscendo così che il lavoro degli inquirenti non era per niente scritto sull’acqua. Il bombardamento di Ingroia è poi diventato guerra spietata, senza risparmio di colpi, quando lo sventurato ha deciso di scendere in politica. Non saltando sul carro di questo o quel partito come fanno gli altri magistrati (indifferentemente etichettati come toghe “rosse” o “azzurre”), sicuri di essere eletti grazie a una legge che notoriamente è una “porcata” . Ma rischiando anche questa volta di suo, creando cioè un nuovo movimento politico indipendente, con l’obiettivo ambizioso di rinnovare la classe dirigente. Gli elettori hanno deluso le sue aspettative e non l’hanno per nulla premiato. Anche perché si sono coalizzate e accanite contro di lui potenti forze trasversali, quasi si trattasse di fermare… Annibale.
Nel corso della campagna elettorale un seguito particolare (negativo per Ingroia) ha avuto l’imitazione che ne ha fatto Maurizio Crozza, tratteggiando un uomo piuttosto confuso, impacciato, sperso. Ora che il Csm vuol trasferire d’ufficio Francesco Messineo, già capo di Ingroia, io chiamerei come teste a discarico proprio Crozza. Perché a torto o a ragione (per me a torto, altro essendo il profilo di Ingroia) secondo molti italiani ormai Ingroia si identifica col personaggio di Crozza. E allora hai voglia a sostenere credibilmente (come vorrebbe fare il Csm) che Ingroia è un arrogante protervo, capace di condizionare il suo capo, facendogli perdere libertà e indipendenza, con agguati tesi e lusinghe pensate nei tristi anfratti del palazzo di giustizia. Impossibile cancellare la maschera tutt’affatto diversa che Crozza gli ha cucito addosso.
Infine, non vorrei che Ingroia si consolasse (si fa per dire) constatando che il ruolo di Malaussène sembra trasferito a Messineo. Al centro dello squallido scenario che denunzia insofferenza per il controllo di legalità esercitato con “troppa” indipendenza, resta pur sempre anche lui. Con un ruolo di prim’attore. E forse non sbaglia chi pensa che i suoi guai – alla fine della storia – derivino soprattutto dall’aver sostenuto positivamente l’accusa contro il potente Marcello Dell’Utri. A qualcuno questo dente continua a dolere, tant’è vero che è stata presentata qualche giorno fa (e solo per ora accantonata) una leggina che punta a dimezzare le pene per il concorso esterno in associazione mafiosa, subito ribattezzata “salva Dell’Utri”. Mentre in commissione Giustizia del Senato un magistrato prestato alla politica ha presentato un progetto di illeciti disciplinari a geometria variabile per colpire i magistrati “politicizzati”. Progetto che, se non è… autolesionismo masochistico, sembra pensato sui clichè che una instancabile propaganda continua ad appioppare a certi magistrati onesti e liberi. Come è stato Ingroia finché ha indossato la toga.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano