Arlacchi e la mafia che non c'è più

di Giorgio Bongiovanni – 31 maggio 2013
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Gentile dott. Arlacchi, le scrivo dopo aver letto quanto da lei scritto sulle pagine de L’Unità in data 29 maggio 2013 (“Perché non credo alla trattativa Stato-mafia”).
Dopo un’attenta riflessione, prima di entrare nel merito, sorgono spontanee alcune domande. Lei compie certe affermazioni perché non vuole capire, perché è rimasto fossilizzato al secolo scorso, o perché qualcuno le suggerisce di compiere certi interventi per creare confusione o peggio depistare nella ricerca della verità?

Considerato che lei è stato amico intimo, nonché collaboratore, dei giudici Falcone e Borsellino siamo più portati a credere alla prima ipotesi, ovvero che si è trincerato dietro al suo fanatismo su quanto avvenuto al tempo e che parli in certi termini per ignoranza dovuta alla non completa conoscenza dei fatti odierni.
Alcuni aspetti che lei pone in evidenza sono assolutamente veri, concreti, reali, ma sono vecchi e per questo miopi di fronte all’evoluzione del fenomeno mafioso.
Lei ha scritto giustamente, riguardo a Falcone e Borsellino, che la loro “conoscenza delle connessioni mafiose con i più alti livelli della politica italiana degli Anni ’80 e dei primi Anni ’90 da parte di F&B era pressochè perfetta. Tutti i dettagli della trafila che partiva da Palermo e raggiungeva Palazzo Chigi, i Servizi di sicurezza e la Cassazione erano noti a loro e ad una ristrettissima cerchia di loro collaboratori (non più di 2-3). Ma anche i nostri avversari sapevano che noi sapevamo. E l’intera storia di F&B si può considerare, perciò, come una lotta contro il tempo. Tutto consisteva in chi sarebbe arrivato prima”. Inoltre aggiunge che “Falcone sapeva fin dalla primavera del 1985 chi era il vero capo della mafia siciliana” e che a rivelarlo era stato “Tommaso Buscetta, ma ciò rimase segreto fino al dopo-Capaci, quando Buscetta sciolse la riserva a parlare delle protezioni politiche di Cosa Nostra. Fu il suo tributo alla memoria del grande giudice, che consentì di far partire nel 1993 il processo contro Giulio Andreotti”.
Ma queste che lei fa non sono rivelazioni, in quanto ci sono libri e testimonianze audiovisive in cui Buscetta racconta proprio queste cose. Penso al libro “La mafia ha vinto” in cui il pentito racconta al giornalista-scrittore, Saverio Lodato, di quel che disse a Falcone “off records” (senza verbalizzare ndr) riguardo al riferimento politico della mafia dagli anni ’60 agli anni ’80.
Sono pronto a credere anche che, come sostiene, l’idea di Falcone, Borsellino e De Gennaro (che lei condivideva in quanto collaboratore) era quella di puntare all’abbattimento della mafia militare per poi realizzare un “maxi processo 2” portando alla sbarra “tutta la connection politica andreottiana”.
Tuttavia la sua diventa una farneticazione quando sostiene che la trattativa altro non è che “un’invenzione dei giudici”, o che la “mafia stava per essere sconfitta”, come disse nel 2001 alla convention dell’Onu che si celebrò in quell’anno a Palermo. Una vera e propria gaffe che lei smentì solo successivamente e che comunque le costò l’allontanamento dalla “Fondazione Falcone”.
Ecco, è quando fa certe affermazioni che lei commette un grave errore dimostrando di ignorare completamente i fatti e le indagini sulla mafia.
Vede, professor Arlacchi, dopo le stragi di Capaci, via D’Amelio e quelle di Roma, Firenze e Milano la mafia ha sì perso Riina, ma ha guadagnato la latitanza di Provenzano per oltre 10 anni. E anche con l’arresto di quest’ultimo  e con le tante operazioni compiute in questi anni, la situazione non è cambiata, tanto che in libertà c’è ancora Matteo Messina Denaro, che sta battendo il record di anni di latitanza che ha avuto lo stesso Riina. Non solo. Sul sangue di Falcone e Borsellino ha acquisito sempre più potere un altra mafia, quella dei colletti bianchi, che frequenta i salotti buoni della città. Quella che in gergo viene chiamata “borghesia mafiosa” e che stringe sempre più patti con il potere politico ed economico. E’ di questo che parla lo stesso giudice Borsellino. Lo scopriamo tramite la moglie Agnese, recentemente scomparsa, che è stata interrogata dai giudici di Caltanissetta che indagano sulla strage di via D’Amelio.
Lei ci ha raccontato che il marito le aveva parlato della trattativa, che dopo essere stato al Viminale, dove aveva incontrato personaggi ai vertici dello Stato italiano, aveva sentito un odore di morte. Il giudice Borsellino le aveva anche detto di aver saputo che il generale Subranni era “punciuto”, ovvero appartenente a Cosa nostra.
Lei come valuta queste dichiarazioni? Anche lei, come Subranni, pensa che la signora Agnese “sia stata un’invasata o una malata di Alzhaimer”? Pensa che mente quando ci racconta che il marito le ha raccontato che “la mafia lo avrebbe ucciso ma sotto indicazione di altri”?

E cosa dire dell’inchiesta denominata “Sistemi criminali” che, archiviata, seppur senza arrivare ad una richiesta di rinvio a giudizio mette in evidenza come tra il ’91 ed il ’93 Cosa Nostra avrebbe progettato di dividere, con un golpe, il Meridione dal resto d’Italia. Per farlo, in base all’ipotesi dei pm, ci sarebbe stato indispensabile l’appoggio della massoneria deviata e dell’estrema destra ma, prima, si sarebbe dovuta liberare dei referenti politici fino ad allora “utilizzati”. La nuova alleanza si sarebbe consolidata sulla base di un progetto separatista che avrebbe avuto come punto di forza quello proveniente dal Nord. Indagini hanno dimostrato come  il movimento “Sicilia Libera” fosse una emanazione diretta di Leoluca Bagarella.
Anche Buscetta, che lei giustamente considera come fonte autorevole, nel libro con Lodato dice espressamente che la “mafia ha vinto”. “E’ troppo facile osservare che buona parte dei politici di oggi non hanno più memoria e lavorano apertamente per il ritorno alla normalità – scrive Buscetta – Proprio quella stessa normalità così necessaria a Cosa Nostra quando decide di non scendere in guerra, ha eliminato gli avversari interni ed esterni più pericolosi, mentre per i conti in sospeso c’è sempre tempo. Ora Cosa Nostra sta pagando un piccolo prezzo, ma in cambio sta ottenendo una grande contropartita: la possibile eliminazione dell’ergastolo, alcune modifiche del Codice, la discussione sull’articolo 41 bis, il cosiddetto ‘carcere duro’, il discredito dei collaboratori di giustizia. A queste condizioni anche Cosa Nostra può tornare alla ‘sua’ normalità. Non occorre la palla di vetro che usano gli indovini per prevedere che in tempi assai brevi farà di tutto per ottenere la revisione di alcuni processi che più le stanno a cuore. Che riuscirà ancora una volta a stringere definitivamente le nuove alleanze, politiche e istituzionali, con referenti nuovi di zecca o riciclati. Che incrementerà la sua capacità di accumulare ricchezza sfruttando tutte le possibilità. Sarà così sin quando Cosa Nostra riterrà necessario scatenare una nuova guerra”.

Ma la sua “ignoranza” (nel senso che ignora le recenti questioni giudiziarie) in merito alla trattativa si fa ancora più evidente quando la nega nonostante vi siano sentenze, come quella pronunciata dalla corte di Firenze che ha portato alla condanna del boss palermitano Francesco Tagliavia per le stragi del 1993 che insanguinarono Firenze, Roma e Milano.
Le voglio ricordare alcuni passaggi: “Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia”. Ad incaricarsene, sempre secondo i giudici, fu l’allora colonnello dei carabinieri Mario Mori, previa esplorazione condotta dal capitano De Donno, all’indomani della strage di Capaci del 23 maggio 1992, in cui persero la vita il giudice Falcone, sua moglie e gli uomini della scorta. La trattativa faceva capo allo stesso Riina, tramite la mediazione di Vito Ciancimino.
L’obiettivo che le istituzioni si prefiggevano era “di trovare un terreno di intesa con Cosa Nostra per far cessare la sequenza delle stragi. È verosimile – spiega la sentenza – che tutti gli apparati, ufficiali e segreti, dello Stato temessero sommamente altri devastanti attentati dopo quello di Capaci, nella consapevolezza che in quel momento non si sarebbe saputo come prevenirli e questo anche perché, nonostante gli sforzi encomiabili di tutte le forze di polizia, si brancolava abbastanza nel buio, soprattutto sul piano dell’intelligence”. Secondo i magistrati fiorentini l’uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta, il 19 luglio 1992 in via D’Amelio a Palermo fu “una variante anomala”, probabilmente perché il giudice aveva saputo della trattativa e vi si opponeva in quanto “rappresentava la negazione stessa della battaglia condotta da sempre con Falcone”. Dopo la strage di via D’Amelio, prosegue la sentenza di Firenze, la trattativa si arenò per qualche tempo ma poi riprese e non si arrestò più neanche quando, dopo l’arresto di Riina (15 gennaio 1993), la mafia sferrò un’altra serie di attentati contro chiese e monumenti, culminata con la strage di via dei Georgofili a Firenze.
La Corte, che nel corso del processo aveva sentito sia l’ex ministro Conso che quello dell’Interno, Nicola Mancino, annota che “dalla disamina delle dichiarazioni di soggetti di così spiccato profilo istituzionale esce un quadro disarmante che proietta ampie zone d’ombra sull’azione dello Stato nella vicenda delle stragi”. La sentenza affronta anche il problema del perché le stragi si fermarono all’inizio del ’94, e se ci sia una relazione con l’avvento di Forza Italia. Allo stato di quanto processualmente accertato la Corte osserva che non hanno ricevuto una verifica giudiziaria, “neanche interlocutoria”, le “gravi affermazioni” dei pentiti, come quelle di Spatuzza e di altri collaboratori, sui “nuovi referenti” della mafia individuati in Berlusconi e Dell’Utri. Così come “non ha trovato consistenza l’ipotesi secondo cui la nuova ‘entità politica’ che stava per nascere si sarebbe addirittura posta come mandante o ispiratrice delle stragi”. Tuttavia, aggiungono significativamente, ciò non esclude “che una svolta nella direzione politica del Paese fosse vista dalla mafia come una chance per affrancarsi dalla precedente classe dirigente in declino”. Così come “non rende impossibile che un canale di interlocuzione si fosse aperto con quel partito nella prospettiva di poter contrattare la fine delle stragi in cambio del riversamento di quel bacino di voti di cui tradizionalmente Cosa Nostra ha da sempre potuto disporre in Sicilia”.
E’ quindi chiaro come non siano trascurabili le dichiarazioni di Spatuzza, il pentito ad oggi ritenuto da tutte le Procure come il più importante ed attendibile grazie al quale è stato riaperto il processo sulla strage di via D’Amelio che fino a qualche tempo fa vedeva condannati innocenti. E’ proprio Spatuzza a parlare della presenza di soggetti “esterni a Cosa nostra” durante le fasi di preparazione dell’auto imbottita di esplosivo.
C’è poi lo stesso Paolo Borsellino che nell’ultima intervista ai due giornalisti francesi parla chiaramente di Mangano e Dell’Utri come testa di  ponte di Cosa nostra per il riciclaggio dei miliardi la mafia guadagnava con la droga.
E come dobbiamo considerare la scomparsa dell’agenda rossa del giudice, avvenuta mentre il suo cadavere e quelli della scorta erano ancora a terra nel selciato.
Ultimo elemento, assolutamente non trascurabile, è poi rappresentato dal rapporto che il prefetto Gianni De Gennaro scrisse nel 1993 immediatamente dopo le stragi.
Le voglio ricordare alcuni passaggi professor Arlacchi in quanto De Gennaro parla chiaramente di
un “progetto” per “intimidire lo Stato” e “condizionare il rinnovamento politico e istituzionale del nostro Paese”. E’ un “pactum sceleris” stretto da Cosa Nostra con centri di potere politici occulti e illegali “oggetti di un’aggregazione analoga a quella che subisce la mafia”. E’ “un’aggregazione orizzontale” che ha un obiettivo: “garantirsi l’impunità” o, per lo meno, “la sopravvivenza” anche a costo di “un’offensiva finale con l’uso di armi pesanti con numerose vittime innocenti, sabotaggio e vie di comunicazione, attentati ai Tribunali e altri uffici”.
Scrive la Dia: “la stagione delle bombe ha lo scopo evidente di far cadere il consenso sociale verso l’azione repressiva dello Stato contro la mafia e indurre l’opinione pubblica a ritenere troppo elevato, in termini di rischio di vite umane, il contrasto alla criminalità organizzata”.
Conclude il rapporto: “La situazione di sofferenza in cui versa Cosa Nostra e la sua disperata ricerca di una sorta di ‘soluzione politica’ potrebbe essersi andata a rinsaldare con interessi di altri centri di potere, oggetto di analoga aggressione da parte delle istituzioni, e aver dato vita ad un pactum sceleris attraverso l’elaborazione di un progetto che tende ad intimidire e distogliere l’attenzione dello Stato per assicurare forme di impunità o, fatto ancor più grave, a innestarsi nel processo politico di rinnovamento politico e istituzionale in atto nel nostro Paese per condizionarlo o comunque per garantirsi uno spazio di sopravvivenza”.
Poiché si onora di essere stato collaboratore di Falcone, Borsellino e De Gennaro, alla luce di questi documenti, cosa ha da dire? Non aveva mai saputo nulla dei discorsi del giudice Borsellino su Dell’Utri e Mangano? Non aveva mai letto il rapporto di De Gennaro in cui si parla chiaramente di trattativa? Lo faccia, si informi, onorevole Arlacchi, prima di esprimere certe considerazioni. Solo così potrà veramante onorare la memoria dei nostri eroi caduti.

Cordiali saluti

Giorgio Bongiovanni

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Fonte:Antimafiaduemila