Diavolo di un Pellegrino!

di Saverio Lodato

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Il “club del potere” non risparmia sforzi per soccorrere gli ex uomini di Stato accusati d’aver trattato con Cosa Nostra prima, durante e dopo le stragi del 92-93. L’avvocato Giovanni Pellegrino, che a quel club si iscrisse da giovanissimo, ex senatore Pds, ma garantista a tutto servizio vita natural durante, con un nuovo articolo pubblicato dall’ Unità ( 8 novembre 2012) entra in contraddizione con se stesso, con quanto scritto appena qualche mese prima (sempre L’Unità). In quell’occasione teorizzò, giustificò, argomentò la trattativa, chiamando in causa persino Giulio Cesare il quale, bloccato in mare aperto dai pirati, consegnò le mercanzie della sua nave, salvo poi, successivamente, far tagliare la gola ai malfattori. Che male ci fu a trattare con i mafiosi?
In questi mesi, Pellegrino, deve essersi accorto che il paragone storico non stava in piedi in quanto i boss con i quali lo Stato trattò, prima e dopo Capaci e via D’Amelio, misero nuovamente a ferro e fuoco l’Italia con le stragi di Roma, Milano e Firenze del 1993.
Ecco allora che adesso, dopo aver letto la memoria con la quale i pubblici ministeri di Palermo hanno sostenuto la loro richiesta di rinvio a giudizio davanti al gup, non sente più il bisogno di spendere una sola parola sulla liceità di quella trattativa. Ma…
Ma adesso si dice stupito perché si “tratterebbe di una delle pagine più fosche della storia repubblicana anche per il prezzo di sangue che all’instaurarsi e al proseguire della trattativa sarebbe stato coscientemente pagato” (meglio tardi che mai, anche se con buona pace di Giulio Cesare). E che, se i fatti fossero veri, non si capisce perché ai pubblici ufficiali e ai rappresentanti politico istituzionali non siano stati contestati reati ben più gravi!
Diavolo di un Pellegrino! Impagabile! L’avvocato, infatti, ormai lancia in resta, spiega da solo l’arcano: in quel caso, a occuparsene, dovrebbe essere infatti il tribunale dei ministri, e non i giudici palermitani. Nel qual caso -ancora- essendo i fatti risalenti a 18 anni fa, sarebbe fondato il sospetto “che si sia già prescritto il delitto per cui si procede.
Il pensiero teorico dell’ avvocato Pellegrino procede -diciamo così- a rate mensili.

Trattativa, dubbi sulla memoria dei pm
di Giovanni Pellegrino – 8 novembre 2012
Nel contesto internazionale e nazionale, che segnò il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, i pm collocano, con narrazione particolareggiata, la fosca trama di una trattativa, che subito dopo l’omicidio Lima venne a svilupparsi per iniziativa dell’allora ministro Mannino. Quest’ultimo, sapendosi prossima vittima designata della vendetta mafiosa, incaricò uomini dei Ros di contattare il vertice di Cosa Nostra per conoscere quali prezzi lo Stato avrebbe potuto pagare, affinché il programma omicidiario venisse abbandonato.
Gli attentati di Capaci, via D’Amelio, Firenze e Milano, che sanguinosamente scandiscono il biennio 1992-1993, vengono inseriti nel contesto della trattativa, di cui i pm individuano con precisione altri protagonisti istituzionali (tra gli altri il capo della Polizia nella sua vicinanza a Scalfaro), assumendo che alla stessa fu funzionale nella formazione del governo la sostituzione di Scotti con Mancino e di Martelli con Conso, nonché la sostituzione di Nicolò Amato con il duo Capriotti-Di Maggio nell’amministrazione delle carceri.
Alla mafia un primo prezzo fu pagato con la mancata proroga da parte del ministro Conso di oltre 300 decreti di applicazione del 41 bis. Fu secondo i pm un «segnale di distensione» non sufficiente a soddisfare i desiderata di Cosa Nostra, per cui una nuova minaccia fu portata al neo costituito governo Berlusconi tramite il canale Bagarella-Brusca-Mangano-Dell’Utri e conseguì il risultato finale di consentire a Cosa Nostra di traghettarsi nella seconda Repubblica mediante la saldatura di un nuovo patto di coesistenza con lo Stato, di cui i pm lasciano soltanto intuire i possibili contenuti.
La gravità dei fatti sin qui esposti non è in discussione; si tratterebbe di una delle pagine più fosche della storia repubblicana anche per il prezzo di sangue che all’instaurarsi e al proseguire della trattativa sarebbe stato coscientemente pagato; sicché sorprende che dai pm non vengano contestate ipotesi delittuose diverse e maggiori da quella delineata nell’art. 338 c.p., che punisce la violenza o la minaccia esercitata da un privato ad un corpo politico, con la reclusione fino a 7 anni elevabile a 8 o a15 nel concorso delle circostanze aggravanti previste dal successivo art. 339.
I privati autori della minaccia sono ovviamente gli uomini di Cosa Nostra (Rina, Provenzano, Brusca, Bagarella e Cinà), che già sepolti da ergastoli non verranno turbati dalla nuova contestazione. Sorprendente quindi è che ai pubblici ufficiali e ai rappresentanti politico-istituzionali partecipi della trattativa non vengano contestati reati propri, connessi alla violazione del vincolo di fedeltà istituzionale, ma soltanto di avere operato come ausilio e tramite della minaccia mafiosa al governo. Agli ex ministri Mancino e Conso non viene contestato nemmeno questo, ma soltanto al primo di aver mentito quando fu sentito come testimone in un altro processo e al secondo di non aver detto la verità nel corso della specifica indagine.
Pure sembra indubitabile, almeno a chi scrive, che un ministro della Giustizia, che nel non prorogare ben trecento regimi di carcere duro paga consapevolmente un prezzo a Cosa Nostra, commetta un reato proprio del suo ufficio. E rilievo non tanto diverso meriterebbe un ministro dell’Interno che accetta l’ufficio nella consapevolezza di essere stato nominato perché ritenuto affidabile nella prosecuzione d’una trattativa già in corso con la principale associazione criminale del Paese.
E tuttavia le ragioni tattiche che hanno ispirato questa scelta abdicativa dei pm sono abbastanza chiare, una volta che la contestazione di un reato ministeriale li avrebbe privati della possibilità di proseguire le indagini perché la legge attribuisce queste competenze al Collegio per i reati ministeriali. È legittimo quindi domandarsi se, in un sistema dominato dalla obbligatorietà dell’azione penale, la scelta dei reati contestabili possa esser così profondamente influenzata dalla volontà di conservare la competenza alla prosecuzione.
Ma le perplessità che la lettura della memoria dei pm suscita sono anche altre. Secondo la ricostruzione della Procura le condotte di minaccia, che sostanziano l’addebito penale, sarebbero comunque cessate nel ’94, quando avrebbero raggiunto il fine cui erano dirette, e cioè la definitiva saldatura del nuovo patto di coesistenza tra lo Stato e la mafia. Ma dal ’94 ci separa uno spazio temporale di ben 18 anni così da fondare il sospetto che si sia già prescritto il delitto, per cui si procede; un sospetto che i pm sono indubbiamente attrezzati a fugare, se hanno chiesto il rinvio a giudizio e non il proscioglimento per prescrizione. Ma ciò non toglie che, se un rinvio a giudizio verrà disposto, sui tre gradi del successivo processo la prescrizione incombe come una probabilissima mannaia.
In qualche modo i pm sembrano farsi carico del problema nella parte finale della loro memoria, quando evocano come unica e legittima ragione di Stato la ricerca della verità, in cui si dicono ancora impegnati, così implicitamente prospettando l’utilità all’accertamento del vero anche di una conclusione del processo con una sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione. In tal modo la Procura palermitana trascura, come già avvenuto in altri notissimi casi, che il proscioglimento per prescrizione non accerta che il fatto contestato sia stato commesso, ma attesta soltanto l’insussistenza nel processo di elementi sufficienti ad escluderne la commissione.

Tratto da: l’Unità