Fiat,il lungo addio

CRONACHE ITALIA (AUTO ITALIA – FIAT)

FIAT, IL LUNGO ADDIO

Pronta a liberarsi di Alfa e di un pezzo di Ferrari Sempre meno auto da produrre in Italia

di Stefano Feltri

Poteva essere uno dei tanti report che ogni giorno inondano le mail degli operatori finanziari e durano lo spazio di una seduta di Borsa. E invece no, si fa sul serio, come dimostra un comunicato ufficiale di Fiat che non smentisce gli scenari anticipati da Morgan Stanley. Gli analisti della banca d’affari scrivono ai clienti che, dopo aver incontrato venerdì l’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne, hanno “lasciato Torino con il chiaro messaggio che Fiat e Chrysler diventeranno una sola azienda”. E nella fase di transizione il Lingotto dovrebbe vendere la parte componentistica, la Magneti Marelli, e quotare in Borsa la Ferrari, facendo entrare nuovi soci (oltre a quelli, come il fondo   Mubadala, che

già fanno parte dell’azionariato) e diluendo così il peso del Lingotto. Se a questo si aggiunge la vendita dell’Alfa Romeo alla Volkswagen, operazione che risolverebbe a Marchionne più di un problema e che sembra solo questione di tempo e di prezzo, diventa sempre più chiaro che il gemellaggio con Chrysler a gennaio 2009 è stato l’inizio del disimpegno della Fiat dall’Italia. Senza l’Alfa, con la Fiat Industrial di camion e trattori separata, senza Magneti e Marelli, con la Lancia ridotta a marchio con cui commercializzare le Chrysler in Italia, della produzione auto qui resterà ben poco.

Qui crisi,

là nuovi modelli

SU RICHIESTA della Consob, l’autorità che vigila sulla Borsa, la Fiat ha precisato che “si tratta di alcune fra le opzioni strategiche che l’operazione di scissione [tra Fiat Auto e Fiat Industrial, operativa dal primo gennaio 2011] metterà a disposizione del gruppo Fiat” e che i vertici del gruppo valuteranno “nella loro piena discrezionalità”. Cioè faranno quello che ritengono più opportuno, incluso smembrare Fiat Auto se necessario (dal punto di vista delle finanze, più che della produzione).

La giornata di ieri è la sintesi perfetta dei rapporti di forza transatlantici: a Torino c’è l’annuncio dinuovacassaintegrazioneaMirafiori (e a Termini, ma lì è noto che si va verso la chiusura) tra dicembre e gennaio, mentre negli Stati Uniti la Fiat prepara il debutto in grande stile al salone dell’auto di Los Angeles dove venerdì verrà presentata la Cinquecento in versione Usa, simbolotangibiledellosbarcoitaliano negli Stati Uniti ma costruita   in Messico, assieme a 12 nuovi modelli Chrysler che in parte arriveranno poi in Europa con marchio Fiat o Lancia. È ormai chiaro che lo sbocco dell’avventura   a Detroit non sarà lo scenario sognato in Italia (la Fiat conquista la Chrysler) ma quello auspicato dal presidente americano Barack Obama (la Fiat consegna a Chrysler quello che ha di buono).

I dati sulle immatricolazioni rendono evidente perché Marchionne preferisca puntare sugli Stati Uniti (anche perché l’espansione europea è fallita quando la Germania ha bloccato l’acquisizione della Opel, nel 2009 ancora parte del gruppo General Motors). Ieri l’associazione europea dei costruttori ha comunicato che la Fiat è il costruttore che sta andando peggio. Confrontando le immatricolazioni di ottobre 2010 con lo stesso mese del 2009, Fiat registra-32,7percento.Èildatopeggiore, anche se tutti sono in calo tranne Bmw (+5,4 per cento).   Negli Stati Uniti, poi, Marchionne ha ottenuto concessioni dai sindacati della Uaw, United Automobile Workers, molto superiori rispetto a quelle che pretende in Italia dalla Fiom. E soprattutto la Chrysler ha beneficiato della montagna di denaro pubblicochesièriversatasuDetroit per salvare il settore automobilistico americano: dalla fine del 2008 il partner Usa di Fiat ha ricevuto quasi 15 miliardi di dollari. E la newco, la nuova società nata tra Chrysler e Fiat per liberarsi dei debiti della vecchia azienda, deve ancora allo Stato oltre 7 miliardi di prestiti a tasso agevolato.

L’integrazione tra Fiat e Chrysler prevede una serie di tappe, conclusione tra il 2013 e il 2016. OggiFiatdetieneil20percentodella newco americana, può salire fino al 35 per cento senza spendere   un euro entro la fine del 2011,sevengonoraggiuntialcuni obiettivi di vendita e il via libera all’utilizzo della tecnologia Fiat. In seguito, tra il primo gennaio 2013 e il 30 giugno 2016, il Lingotto potrà salire ancora del 16 per cento, ma soltanto se il debito della newco verso il Tesoro americano sarà sceso sotto i tre miliardi di dollari. Una volta rimborsato tutto il finanziamento straordinario, alla Fiat sarà concesso di superare anche il tetto del 49 per cento e diventare quindi azionista di controllo a tutti gli effetti.

Che fine farà

Fabbrica Italia

CHE MARCHIONNE ragioni ormai con la testa a Detroit si era capito già lo scorso gennaio, quandoilgruppotorineseaveva deciso di distribuire agli azionisti un dividendo da 237 milioni nonostante avesse chiuso i bilanciinrossodi800.Scopoprincipale: dimostrare ai mercati americani che Marchionne era così fiducioso nelle prospettive dell’alleanza con Chrysler da permettersi di distribuire soldi agli azionisti.

Resta un dubbio: che fine farà il piano Fabbrica Italia, 20 miliardi di investimento in cinque anni in cambio di maggiore flessibilità, di cui si discute in Italia da sei mesi? Mistero. Certo, la prospettiva di uno smantellamento della parte auto del gruppo con la cessione di Magneti Marelli e dell’Alfa spiegherebbe perché finora Marchionne non abbia mairivelatoaisindacatiidettagli su che cosa si produrrà e dove con il nuovo piano.

Sergio Marchionne e John Elkann visti da Marilena Nardi

IL FATTO QUOTIDIANO 17 NOVEMBRE 2010

ALFA ROMEO

IL CAPITALISMO ALL’ITALIANA CHE SI ARRENDE ALLA VOLKSWAGEN

di Giorgio Meletti

Negli anni Venti, quando il Modello T inondava il mercato americano e consegnava il suo nome alla storia dell’auto, Henry Ford diceva che si toglieva il cappello ogni volta che passava un’Alfa Romeo. Adesso tocca agli italiani togliersi il cappello per salutare l’ultimo rombo del’Alfa, che saluta e se ne va, probabilmente in Germania, nel land della Bassa Sassonia, città di Wolfsburg, sede della Volkswagen.

SI CHIUDE COSÌ una parabola esemplare, quella che aiuterà i nostri nipoti a imparare sui libri di storia la diabolica capacità distruttiva di una classe dirigente votata a obbedire ai capricci del suo mito e padrone, l’avvocato Giovanni Agnelli.

Istruttivo ripercorrere le storie parallele di Volkswagen e Alfa Romeo. La prima è creata negli anni Trenta da Adolf Hitler che affida a un progettista geniale, Ferdinand Porsche, la costruzione dell’auto per il popolo. La seconda negli anni Trenta è già un mito. La sua superiorità nelle gare automobilistiche è tale che decide di ritirarsi perché   non c’è più gusto a vincere sempre, e lascia a piedi Tazio Nuvolari. Però i conti sono scassati, e Benito Mussolini, per non interrompere l’emozione, la nazionalizza. Il senatore Giovanni Agnelli (nonno dell’Avvocato) vorrebbe prendersela perché è già in preda a sogni monopolistici. “Il monopolio è il suo Dio ed egli non è molto alieno dal proclamarsene indiscusso profeta”, decreta il Duce, e tiene l’Alfa in mano pubblica.

Sono passati quasi ottant’anni, e oggi la Volkswagen è un colosso davvero mondiale. Basti il fatto che vende più auto in Cina che in Germania. L’Alfa Romeo invece è ridotta a poco più di un fortissimo marchio. Venticinque anni fa l’allora presidente dell’Iri Romano Prodi prese atto che i conti andavano sempre peggio. In primo luogo perché come tutte le aziende pubbliche era esposta al sistematico saccheggio della classe politica. Urgeva quindi privatizzarla   . In secondo luogo l’Alfa Romeo disponeva di un prodotto che faceva gola agli automobilisti di tutto il mondo (ricordate “Il laureato”, con Dustin Hoffman sulla Duetto scarlatta?), ma non aveva rete di vendita all’estero. Prodi decise quindi di venderla proprio   alla Ford, che poteva distribuire in tutto il mondo i rombanti motori di Arese e Pomigliano d’Arco. “Fecero di tutto per impedirmelo e ci riuscirono”, rievocò in seguito.

La Fiat non poteva sopportare che un gigante come la Ford entrasse sul mercato italiano. Fece il diavolo a quattro, si accaparrò facilmente appoggi politici di ogni colore, a cominciare da quello del segretario della   Dc Ciriaco De Mita e del presidente del Consiglio Bettino Craxi. Si inserì nella trattativa con la Ford, durata mesi, formulando un’offerta “pochi, maledetti e subito” che il governo subito accettò (bisogna ricordarsi che le vendite di aziende dell’Iri, per legge, non le decideva l’Iri ma palazzo Chigi). Su quella vendita le polemiche non si sono mai sopite. C’è stata anche un’inchiesta giudiziaria. La Fiat offrì un pagamento a rate talmente dilazionato che nessuno ha mai capito veramente quanto avesse pagato. L’unico dato concreto è che Fabiano Fabiani, allora amministratore delegato della Fin-meccanica (la holding Iri che possedeva l’Alfa) scontò in banca il contratto con Fiat: gli dettero meno di 500 miliardi di lire di allora.

MA LA FIAT che futuro poteva dare all’Alfa? Lo stesso della Fiat. Un futuro asfitticamente chiuso nei confini nazionali, dove anziché investire sull’auto, come chiedeva Vittorio Ghidella (padre della Uno, rapidamente messo alla porta), continuava a “diversificare” in ogni settore, compresi gli appalti pubblici. “E’ mia convinzione che invece di gonfiare, sarebbe meglio deflazionare il campo degli Agnelli, che va dall’auto ai cantieri, dai giornali agli alberghi di montagna” (è ancora Mussolini che vede e prevede…).

La Fiat con l’Alfa ottenne l’unica cosa che gli interessava: il 60 per cento del mercato italiano dell’auto. Erano gli anni in cui era vietato importare auto giapponesi. Venticinque anni dopo la quota di mercato della Fiat si è dimezzata e l’Alfa finalmente andrà a conquistare il mondo. Solo che ce la portano i nostri fratelli europei di Wolfsburg, usando il marchio come   fanno i cinesi con i pelati San Marzano. E la Alfa saranno progettate e probabilmente anche costruite fuori d’Italia. Destino scritto venticinque anni fa.

IL FATTO QUOTIDIANO 17 NOVEMBRE 2010